La Nuova Sardegna

Sassari

Il processo

Sassari, in aula la versione di Dettori: «Non ho ucciso io Antonio Fara»

Luca Fiori
Sassari, in aula la versione di Dettori: «Non ho ucciso io Antonio Fara»

Corte d’assise: l’imputato ha raccontato ai giudici che temeva di morire

06 luglio 2022
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Sassari «Ricordo che la sera del 22 aprile dello scorso anno Antonio era preoccupato, mi aveva accennato che doveva incontrare delle persone e poi tra le 21 e le 22 uscì di casa lasciandomi le chiavi». Ha provato ad allontanare da sé i sospetti ieri mattina Claudio Dettori, il 25enne sassarese accusato dell'omicidio di Antonio Fara, il barista di 47 anni trovato morto col cranio spaccato nel suo appartamento di via Livorno la mattina del 23 aprile del 2021, raccontando in aula la sua ricostruzione di quello che accadde la notte dell’omicidio. «Da dove uscì?» lo ha bloccato subito il pubblico ministero Giovanni Porcheddu che nel corso di un’udienza precedente aveva mostrato ai giudici della corte d’assise le immagini di varie telecamere della zona che avevano ripreso la vittima rincasare poco dopo le 17 di quella sera e poi non allontanarsi più dall’appartamento.

«Non è uscito dalla porta d’ingresso - ha cercato di spiegare Dettori - perché forse non voleva far vedere dove stava andando alle persone di cui aveva paura». Con voce ferma e buona proprietà di linguaggio l’imputato - che in apertura d’udienza si è proclamato innocente - ha risposto prima alle domande del pubblico ministero e poi a quelle dell’avvocato Simone Pisano, che rappresenta il padre, la sorella e un cugino della vittima che si sono costituiti parte civile. Secondo Dettori la sera in cui venne ucciso all’interno del suo appartamento, Fara uscì di casa all’ora di cena, saltando - senza un apparente motivo - cancelli e muretti sul retro della sua abitazione, per poi rincasare (non si sa come visto che non aveva più le chiavi) sempre scegliendo questo percorso, prima di essere aggredito da qualcuno che entrò nel suo appartamento. Una versione che non sta in piedi per il pm Porcheddu, che ha chiesto a Dettori se potesse spiegare al presidente Mauro Pusceddu, al giudice a latere Giulia Tronci e ai giudici popolari la presenza del suo Dna sul manico del martello con cui molto probabilmente il barista venne ucciso, sui guanti in lattice trovati accanto al corpo della vittima e sulla busta che conteneva l’incasso del bar che Antonio Fara gestiva con una socia in piazza Rosario. «Avevo fatto dei lavoretti in casa per Antonio che mi aveva accolto dopo avermi trovato in difficoltà su una panchina - ha spiegato Dettori - e in quell’occasione potrei aver lasciato le mie impronte, così come sui guanti in lattice che usavo per fare le pulizie in casa e sulla busta dei soldi, che Antonio a volte contava davanti a me quando tornava dal lavoro». L’imputato ha poi aggiunto di essere uscito dalla casa in cui era ospite verso le 22 del 22 aprile, di essere rientrato l’indomani poco dopo l’alba e di aver trovato il cadavere del barista avvolto in una coperta in mezzo al corridoio.

«Mi sono inginocchiato e ho provato a rianimarlo - ha raccontato - ma qualcuno ha suonato il campanello e cercato di sfondare la porta a calci. Erano in due. Sono entrato nel panico, ho chiamato i carabinieri e sono scappato perché avevo paura che uccidessero anche me perché una delle due persone semb rava armata. E poi ho temuto che mi accusassero del delitto. Avevo intenzione di presentarmi in caserma il giorno seguente per spiegare la mia posizione. E poi se fossi stato io - questa volta si è rivolto lui al pm - perché non avrei dovuto ripulire anche l’arma del delitto dalle mie impronte?». «Semplice - gli ha risposto il pubblico ministero - forse perché non ha avuto il tempo di farlo. Il martello - ha aggiunto il rappresentante dell’accusa - venne trovato sul muretto del cortile da dove lei ha ammesso di essersi allontanato per poi raggiungere via Napoli. Questo come se lo spiega?». «Non lo so» ha risposto Dettori, che la mattina del 23 aprile mentre i carabinieri iniziavano a dargli la caccia andò a lavorare in un cantiere come manovale per dare una mano a un conoscente. L’imputato ha poi risposto alle domande del suo difensore, l’avvocato Bruno Conti, che ha provato a convincere i giudici che il suo cliente non aveva bisogno dei soldi di Fara perché faceva dei lavoretti occasionali e riceveva denaro dai suoi genitori. Il processo prosegue lunedì prossimo con l’audizione di un carabiniere dei Ris che eseguì degli accertamenti sul corpo della vittima, poi inizierà la discussione del pubblico ministero.

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