Palazzina esplosa a Sassari, parla il sopravvissuto: «Da due mesi dormo fuori casa, il mio cuore è sotto quei detriti»
Giovanni Manconi è rimasto senza un tetto dopo il botto in via Principessa Maria. Il ricordo del 30 giugno è vivo: «Da quel giorno nessuno mi ha mai più chiamato»
Sassari Due mesi dopo l’esplosione, il silenzio è il rumore più forte in via Principessa Maria. Ora c’è solo il vento caldo che solleva la polvere e si infila tra i resti della palazzina crollata, all’angolo con via Don Minzoni. Era la mattina del 30 giugno: 58 giorni dopo le macerie sono ancora lì, incollate all’asfalto, come una ferita che nessuno vuole guardare.
Sotto, nascoste da calcinacci e travi contorte, ci sono due automobili stritolate, che raccontano il terrore di quella mattina di inizio estate. Davanti al cumulo di cemento, un pezzo di nastro bianco e rosso sventola pigro, appeso alle transenne. Sulla porta annerita dall’esplosione c’è ancora il cartello della Questura: “Immobile sottoposto a sequestro giudiziario”. La poca gente che passa rallenta, si gira, osserva in silenzio. Qualcuno abbassa il finestrino per sbirciare meglio.
«Il primo mese venivano qui a farsi i selfie» racconta con lo sguardo fisso su quel vuoto Giovanni Manconi, 56 anni, imprenditore sassarese, che nell’esplosione ha perso la casa e ogni giorno passa in questo incrocio non meno di sei volte. «È più forte di me, c’è come una calamita che mi riporta qui, sotto i resti della mia casa», sussurra, senza staccare gli occhi dalle macerie. «Due mesi fa, in una manciata di minuti, ho perso tutto. La mia casa, la mia serenità». La sua casa era al secondo piano di una palazzina di due piani. Ora non resta nulla, se non polvere e silenzio. «Ancora non ci credo. Non ho mai ricevuto una telefonata dalle istituzioni, nessuno mi ha chiesto come stessi», dice con amarezza. Da quella mattina del 30 giugno, Giovanni vive da sua madre, e ha iniziato una terapia psicologica per il disturbo post traumatico da stress.
«Avrei voluto recuperare qualcosa, anche solo una foto. Mi avevano autorizzato a entrare, ma il palazzo è pericolante. È come se la mia vita fosse rimasta sepolta lì sotto, insieme ai miei ricordi». Davanti all’ingresso di quella che fino a due mesi fa era la sua casa, Giovanni riavvolge il nastro e ripercorre i momenti drammatici di quella mattina. «Quando sono entrato nell’androne ho sentito un odore fortissimo di gas. Ho chiamato subito il 115», racconta. «Sono arrivati i vigili del fuoco. Poi è successo tutto». Un boato, il lampo, la deflagrazione. «Ho iniziato a correre, ho svoltato l’angolo e ho perso il telefono per la strada. Mi sono voltato e ho visto il palazzo che crollava sulle macchine in sosta», dice con voce ferma. «Il mio primo pensiero è andato ai pompieri. Sono tornato indietro per capire se fossero ancora vivi». Nella mansarda, al secondo piano, c’era Antonello Lambroni, geometra di 63 anni. Lo estraggono vivo, ma devastato dalle ustioni. Lotta nove giorni, poi muore nella notte del 9 luglio. Giovanni inspira profondamente. «Sono stato al suo funerale, mi dispiace per quello che è accaduto. Faccio arrampicata da anni. Ho visto massi staccarsi, gente cadere. Mai ho avuto paura come quella mattina». Due mesi dopo, tutto è fermo. Nessuna ruspa, nessun operaio. Solo polvere e silenzio. A pochi isolati le scuole stanno per riaprire. Ma davanti a queste transenne il tempo non si muove. Giovanni sospira. «Penso ai miei figli, a quello che poteva succedere. «A tutt’oggi sono lontano dal ritrovare la mia normalità».
Antonio Lorenzoni, 80 anni, medico in pensione, vive nel palazzo di fronte. Quel 30 giugno era in un ambulatorio da un collega, a venti metri da qui. «Ho sentito un rumore sordo, poi un boato che mi ha fatto tremare le gambe», racconta. «Ho avuto paura, i vetri del mio appartamento sono andati in frantumi. Pensavo che la casa stesse venendo giù. Certo, i muri si riparano, ma la paura resta. Ho 80 anni e non credevo di dover vedere una cosa così», sospira, mentre fissa i detriti dimenticati da due mesi davanti all’ingesso del suo garage.