La Nuova Sardegna

Sassari

La storia

Il “re delle rapine” cambia strada: «Nessuna cifra vale la libertà»

di Luca Fiori

	A sinistra Mario Vincenzo Selis insieme a don Galia 
A sinistra Mario Vincenzo Selis insieme a don Galia 

Mario Vincenzo Selis, 64 anni, ha trascorso metà della sua vita dietro le sbarre

6 MINUTI DI LETTURA





Sassari «Tutti i soldi del mondo non valgono un giorno di libertà». Seduto nella piccola biblioteca della comunità “Don Graziano Muntoni” a San Giorgio, alle porte di Sassari, Mario Vincenzo Selis, 64 anni, 35 dei quali passati in carcere e sette ancora da scontare, lo dice senza esitazioni. Tra i ragazzi che cercano una strada diversa dalla devianza, lui viene ogni mercoledì per dare una mano. «Voglio raccontare la mia storia – spiega – perché se anche solo un ragazzo capisce che non vale la pena fare la mia strada, avrò fatto qualcosa di buono». Occhiali sottili, testa rasata, un vecchio tatuaggio sul braccio, t-shirt bianca candida. La voce è sicura, ferma, ma quando parla della madre, gli occhi si fanno lucidi: «Lei non ha colpe per quello che sono diventato».

Ci incontriamo nel cuore della comunità fondata dieci anni fa da don Gaetano Galia, sacerdote e pedagogista, dal 2011 cappellano del carcere di Bancali. Un luogo sospeso, dove i ragazzi in difficoltà trovano accoglienza e una seconda possibilità. «Qui raccogliamo gli ultimi – spiega il sacerdote – ma per noi nessuno è uno scarto. Neanche chi ha sbagliato più volte». Selis lo sa bene. La stretta di mano è forte, lo sguardo diretto. Ci sediamo. A pochi metri, altri detenuti in semilibertà si occupano della fattoria didattica, tengono in ordine questo piccolo paradiso terrestre, che profuma di riscatto. «Sono nato a Oristano, ottavo di dieci figli – racconta Mario – e ho sbagliato tutto. Mio padre è morto che avevo cinque anni. Di lui non ho ricordi. Mia madre è rimasta sola, giovane, con dieci figli. Non ce la faceva. Mi ha mandato in collegio. Non ha colpe, non riesco a dargliene».

Da bambino difficile a fuggiasco il passo è breve. «Scappavo sempre. Ho cominciato con piccoli furti. La prima volta che sono entrato in un carcere minorile ero un ragazzino. Due notti. Non mi fece troppa impressione». Poi Torino. «Il tribunale dei minori di Cagliari mi affidò a mia sorella. È stato il salto dalla padella alla brace. Avevo 12/13 anni, crescevo in un quartiere difficile, Barriera di Milano, vicino a Porta Palazzo. Cercavo soldi e adrenalina. E li trovai».

Quando è iniziata la vera discesa?

«Quando ho capito che era un mestiere. Non riuscivo a fermarmi. Vivevo di furti e rapine. Negli anni Novanta una delle tante finì nel sangue. Morirono delle persone. Mi diedero trent’anni di carcere. Poi, dopo qualche anno, tra permessi e buona condotta, rimisi piede fuori e ricominciai la vita di prima. Mi sposai, ebbi due figli, ma non avevo la testa per essere un buon padre e ogni tanto mi mettevano le manette». Tra il 2004 e l’inizio del 2007, con una trentina di colpi in tutta Italia, Mario si conquista il soprannome di “Re delle rapine”: Savona, Torino, Cuneo, Asti, Bologna, Pavia, Reggio Emilia, Sassari, Cagliari, Voghera, Firenze, Modena, Piacenza. «Entravo con la pistola in mano, occhiali da sole e berrettino. Più prendevo, più volevo». Poi la riflessione che oggi gli brucia: «I soldi che mi procuravo con le rapine li sperperavo. Non mi sono goduto niente. Oggi, che lavoro in un ristorante ad Alghero, so quanto vale un euro guadagnato onestamente. È una soddisfazione diversa, vera». Mario sorride amaro, ricordando quante occasioni ha sprecato. «Sapevo che prima o poi sarebbe finita. E quando era il momento di arrendersi, lo facevo. Una volta, dopo una rapina nel Nord Italia, mi bloccarono mentre stavo indossando il casco per salire sul T-Max. Un poliziotto mi puntò la pistola, gli tremava la mano. Gli dissi: “Guarda, mi siedo qui sul marciapiede. Quello è lo zainetto con i soldi, metti giù quell’arma”. Non volevo che succedesse il peggio». Prima i magistrati e le forze dell’ordine erano nemici. Oggi ha maturato un’altra visione: «Fanno semplicemente il loro lavoro». In 35 anni Mario ha girato tante carceri, anche l’Asinara. «Nei primi anni Ottanta stavo bene sull’isola, lavoravo all’aperto, respiravo. Poi Bancali, dove sono ancora oggi. Dal 2013 sono lì, ho visto nascere il nuovo carcere, sono il detenuto che è da più tempo a Sassari».

Com’è la vita dietro le sbarre?

«Ci sono leggi non scritte e codici di comportamento. Se li rispetti, ti rispettano. È un mondo duro, ma con regole. Oggi tutto è diverso: l’ottanta percento dei detenuti sono tossicodipendenti. Quelle famose regole non le conoscono o non le rispettano. Io ho imparato a vivere in quel contesto: a leggere, a lavorare. Il carcere un tempo era molto più duro. Oggi ci sono tante comodità».

Ha conosciuto qualcuno ingiustamente detenuto?

«Pochi, quasi nessuno, ma uno era mio fratello. Accusato di una rapina mentre era latitante e condannato a sei anni. Io ero certo della sua innocenza perché sapevo dove si era nascosto. Eppure una cassiera sostenne di averlo riconosciuto come il rapinatore». Poi il colpo allo stomaco. Il giorno che Mario, già sulla via della redenzione, decide che la sua vita deve cambiare definitivamente. Un’illuminazione durante il lavoro nato per raccontare la storia recente dell’Asinara: registri, fascicoli, carte, fotografie, testimonianze, utensili di vita quotidiana. «Ero stato assunto dal Parco nell’ambito di un progetto di digitalizzazione dei fascicoli storici. Cinquemila storie di uomini: criminali famosi, banditi, gente dimenticata. Lavoravo ore intere davanti ai faldoni, mettevo ordine nel caos. Poi, un giorno, ho trovato il mio fascicolo, datato 1982, quando anch’io ero detenuto sull’isola. Il mio nome, la mia vita in quelle carte ingiallite. È stato come guardarsi allo specchio dopo trent’anni. Ho capito che volevo cambiare».

E la famiglia?

«Ho due figli grandi che vivono nella Penisola. Hanno dei bambini, i miei nipoti. Li sento, li vedo quando posso. Per fortuna la mia ex moglie è stata brava a non mettermeli contro. Mi vergogno per il tempo che ho buttato via, per il male fatto a tante persone. Il carcere ti toglie tutto, ma soprattutto ti ruba gli anni. E quelli non tornano». Oggi la vita è diversa. «Sono in semilibertà. Esco alle sette del mattino, rientro alle 22. Lavoro in un ristorante. Il mercoledì vengo qui, dai ragazzi di don Gaetano, e cerco di dare una mano. Loro sono come ero io: pieni di rabbia e di sogni sbagliati. Se posso fare qualcosa, la faccio. Ogni tanto don Gaetano mi porta in una scuola e racconto la mia storia agli studenti».

Cosa le ha dato la forza di cambiare?

«Oltre a don Gaetano, che mi ha dato fiducia, devo ringraziare anche i giudici del Tribunale di Sorveglianza e l’area educativa del carcere. Hanno creduto che potessi farcela, che meritassi un percorso di semilibertà. Senza di loro non sarebbe stato possibile».

Cosa direbbe al Mario di quarant’anni fa?

«Gli direi: non farlo. Non vale la pena. Tutti i soldi del mondo non valgono un giorno di libertà». Mario si toglie gli occhiali, passa un dito sul vecchio tatuaggio. Gli occhi si fanno lucidi, mentre prendiamo un caffè. «Ho chiesto scusa a tante persone, ho scritto tante lettere e ne scriverò altre. Ora cerco di perdonare me stesso. Non sarà facile. Ma voglio provarci. Lo devo ai miei figli e alla memoria di mia madre, che non aveva nessuna colpa».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Primo piano
Sanità

La promessa di Bartolazzi: «I sardi non viaggeranno più per curarsi, non chiuderemo alcun ospedale e taglieremo del 40% le liste d'attesa» – L’intervista completa

di Luigi Soriga
Le nostre iniziative