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Diomedi, l'unico sardo in campo nel giorno dello scudetto

Enrico Gaviano
Marcello Diomedi con la maglia del Bari
Marcello Diomedi con la maglia del Bari

Calangianese, il 12 aprile 1970 era in campo contro il Cagliari con la maglia del Bari

27 aprile 2020
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Il giorno dello scudetto, il 12 aprile 1970, all’Amsicora c’era in campo un solo sardo. Però non giocava nel Cagliari, ma nel Bari. Marcello Diomedi, difensore- centrocampista, classe 1942, è originario di Calangianus. Oggi vive a Jesi, nelle Marche, la terra d’origine di suo papà finito in Sardegna poco prima dell’inizio della Seconda guerra mondiale a dirigere gli uffici del dazio a Tempio Pausania. Ma con la Sardegna resta il legame fortissimo dell’infanzia, e i molti parenti che in Sardegna vivono, fra Sassari e la Gallura. «Io mi sento sardo sino al midollo – ama ripetere –, per carattere e per l’affetto che porto alla mia terra».

Cagliari-Bari. Cosa si ricorda di quel giorno.

«Una giornata incredibile. C’era il sole, lo stadio stracolmo. E io ero felice di scendere in campo. Anche perché, per la verità, non avrei proprio dovuto giocare...»

E per quale motivo?

«Stetti male tutta la settimana. Avevo dei grossi problemi alle gengive, e così dovetti per forza prendere degli antibiotici. Questo sino alla sera prima della partita. Ma volevo giocare a tutti i costi».

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E quindi?

«L’allenatore Matteucci, che aveva sostituito da poche giornate l’esonerato Oronzo Pugliese venne a dirmi: allora Marcello, te la senti di giocare? Io risposi di sì. Non potevo mancare a quell’appuntamento nella mia Sardegna. Sulle tribune c’erano tanti amici di tutta l’isola e i parenti».

Il Cagliari vinse e festeggiò lo scudetto.

«C’erano motivazioni ben diverse. Noi eravamo praticamente retrocessi, il Cagliari doveva vincere per chiudere il campionato. A me toccò marcare Nenè, un giocatore fantastico e, oltretutto, molto corretto. Sì, è vero, perdemmo 2-0 ma non regalammo la partita. Considerate che solo a un minuto dalla fine Gori segnò la rete del raddoppio. La partita sino a quel momento era stata ancora in bilico».

Lei nel frattempo era già uscito dal campo.

«Sì, intorno al 16’ della ripresa chiesi il cambio. Gli antibiotici fecero effetto e dopo un’ora non sentivo più le gambe».

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Il suo compagno di squadra Loseto in questi giorni ha detto di aver perso la maglietta che gli diede Riva a fine gara, lei scambiò la maglia con qualcuno?

«No, andai via senza niente in mano. Ma non ho mai avuto la fissazione delle magliette. Pensi che a fine carriera ne avevo conservato appena tre: quella della finale della Mitropa Cup vinta con la Fiorentina, quella della nazionale di C con cui feci gol, e una del Bari che è stata la squadra a cui sono rimasto molto affezionato. E poi queste maglie le ho pure regalate ai miei nipoti».

Ha cullato il sogno di giocare nel Cagliari?

«C’è stato solo un momento in cui la possibilità, remota, si è affacciata. All’inizio del torneo 1967-68 ero in rotta con la Fiorentina: mi avevano detto che sarei stato titolare e invece non mi utilizzavano, finchè un giorno mi scocciai così sapendo che il Cagliari era in ritiro a Marina di Ravenna, andai a parlare con Arrica. Gli dissi che avrei giocato volentieri a Cagliari. Ma poi non se ne fece nulla».

Una volta ha anche marcato Riva.

«Sì nel 1966 a Cagliari. Finì 1-0 per loro ma Riva rimase all'asciutto. All’inizio il pubblico fischiava, ma alla fine mi applaudirono. Giocai sempre sull’anticipo. Fu una giornata indimenticabile. E Riva qualche anno dopo in un’intervista che conservo, parlò di quella marcatura ferrea».

Come ha iniziato a giocare?

«Da ragazzino a Olbia, dove andavo a a scuola. Quindi a Cagliari, dove frequentavo la ragioneria al Martini. Lì esordii in promozione con la Pacini».

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E il salto in serie D?

«Ero bravino e giocando nella rappresentativa juniores e di Promozione della Sardegna nella penisola fui notato dai dirigenti della Sangiorgese. Mi chiesero di andar lì. Mia madre non ne voleva sapere: devi diplomarti. Io la convinsi, anche perché sapevo già da allora che bisognava pensare al futuro dopo il calcio. Infatti mi diplomai e cominciai a lavorare e giocare a pallone».

Un nuovo step, ed ecco la C.

«Alla Ternana: sono andato bene. E così un anno dopo mi prese la Fiorentina in A. Toccavo il cielo con un dito, anche perché nella prima stagione vincemmo Coppa Italia e Mitropa».

Quindi il Bari...

«Un’esperienza bellissima e ancora i tifosi del Bari sono attaccatissimi a me. Sono molto orgoglioso di questo».

Lei ha anche un bel primato. Nella sua carriera ultraventennale ha giocato in tutte le categorie, dalla Terza categoria alla A.

«Un personaggio della tv , Sossio Aruta, alcune stagioni fa chiese al Benevento di scendere in campo per un minuto in A perchè “così sarei il primo a giocare in tutte le categorie”. Si sbagliava. Intanto il Benevento non ha accettato e comunque, il primo a fare così tanto sono stato io».

Ha chiuso virtualmente la carriera ad Alghero: due stagioni dal 1973 al 1975.

«Ero tornato in Sardegna perché la Sai Assicurazioni mi chiese di farmi le ossa nell’isola prima di darmi un’agenzia tutta mia. Con i catalani ho disputato due stagioni bellissime. Dopo un infortunio, rientrai nelle ultime tre partite segnando 5 gol. Insomma, ero in forma ma il campionato era finito».

E perché non è rimasto?

«Avrei dovuto dirigere l’agenzia a Tempio, ma un’assicurazione concorrente, la Ras, mi propose un’agenzia nelle Marche. Mia moglie preferiva stare lì, e così ho deciso di tornare nella penisola. Ma in Sardegna vengo spesso a trovare i miei parenti. Penso ad esempio a mio fratello, Enrico, purtroppo scomparso, avvocato a cui è dedicata un’aula del tribunale id Tempio. O a sua figlio Maurizio, un campione nell’automobilismo. Insomma, i Diomedi, compreso il sottoscritto, hanno saputo portare in alto il nome della Sardegna»
 

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