La Nuova Sardegna

Addio all’ultimo imperatore entrato nell’olimpo dei poeti

di Sante Maurizi
Addio all’ultimo imperatore entrato nell’olimpo dei poeti

È morto a 77 anni uno dei maestri del cinema italiano, vincitore di due Oscar Dalla riflessione sulle vicende storiche nazionali all’esperienza hollywoodiana 

27 novembre 2018
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«Col sorriso confuso di chi la timidezza / e l’acerbità sopporta con allegrezza, / vieni tra gli amici adulti e fieramente / umile, ardentemente muto, siedi attento / alle nostre ironie, alle nostre passioni».

Il ragazzo adolescente “tra gli amici adulti” è Bernardo Bertolucci, chi scrive è Pier Paolo Pasolini. È la fine degli anni ’50. La famiglia Bertolucci abita a Roma, a Monteverde, in un condominio nel quale al primo piano vive il poeta. Anni dopo Bernardo rievocherà così il primo incontro: «Pasolini era un amico di mio padre. Una domenica suonarono alla porta di casa, io aprii, lui si presentò e io lo lasciai lì sul pianerottolo, chiudendogli la porta in faccia. Andai da mio padre a dirgli che c’era un tale che chiedeva di lui, che aveva un’aria strana e si chiamava Pasolini. E mio padre: “Ma come, è un grande poeta! Fallo entrare subito!”».

Bernardo nasce a Parma nel 1941. Il padre Attilio appartiene a una famiglia di proprietari terrieri, la madre Ninetta viene da Sidney, figlia di un emigrato in Australia per motivi politici. Entrambi sono insegnanti, lei di lettere, lui di storia dell’arte. Attilio si è già fatto un nome come poeta, collabora a varie riviste e dirige per Guanda la collezione di poeti stranieri. Gli anni dell’infanzia, Parma, le terre della Bassa e delle colline che la circondano, entreranno in molti film del futuro regista. Nel 1951 Attilio accetta l’invito di Roberto Longhi, suo maestro a Bologna: si trasferisce con la famiglia a Roma, collabora a «Paragone» e con la Rai, diventa consulente di Garzanti. Sarà lui a caldeggiare presso l’editore la pubblicazione di «Ragazzi di vita»: Pasolini avrà grande influenza sul giovane Bernardo, che scrive poesie e dopo aver girato un paio di corti diventa aiuto regista per «Accattone».

È il 1961. Un anno dopo, il produttore Tonino Cervi gli propone la regia de «La commare secca», soggetto di Pasolini e pensato come sequel del successo di «Accattone». La storia, i personaggi, lo stile sono più pasoliniani del suo mentore (una prostituta uccisa, le rive del Tevere abitate da un’umanità ai margini): il film viene presentato a Venezia e contestato dai critici. Alcuni consigliano a Bertolucci di dedicarsi definitivamente ai versi (ha appena vinto il Premio Viareggio opera prima con la raccolta «In cerca del mistero»): «ma essendo la poesia il regno di mio padre, dovetti per forza trovare un linguaggio che fosse invece tutto mio». La ricerca approda nel 1964 a «Prima della rivoluzione»: un giovane borghese che abbandona famiglia e fidanzata, ha una relazione con una zia, vive di velleità rivoluzionarie ma torna alla fine in seno al suo mondo. Il film è un insuccesso ma riceve due premi a Cannes: i francesi sentono maggiormente quel grumo di inquietudine e velleità che agiterà a breve le strade del Quartiere Latino. Gli cuciono addosso l’etichetta di enfant terrible e lo accolgono nel milieu della Nouvelle Vague.

Per qualche anno, non trovando finanziatori per un lungometraggio, Bertolucci dirige alcuni documentari e collabora con il Living Theatre. È anche grazie a questa esperienza che «Partner» (1968), tratto dal «Sosia» di Dostoevskij, approfondisce il tema della crudeltà e inizia a definire sia una tavolozza di colori che un pittore (Francis Bacon) che avranno grande importanza nelle opere successive. «Strategia del ragno» (1970) è il viaggio un giovane alla vana ricerca della verità sulla morte del padre, ucciso dai fascisti decenni prima. I riferimenti a Verdi, Antonio Ligabue, Pascoli, alle architetture di Sabbioneta confermano la ricerca estetico-espressiva del regista, che troverà forma compiuta nel successivo «Il conformista». Più che la trama (peraltro sceneggiata magistralmente dal regista sul romanzo di Moravia) dell’opaco professore di filosofia spia dell’OVRA durante il fascismo, restano negli occhi le architetture romane e parigine, i movimenti di macchina, la splendida fotografia di Storaro.

Ormai è riconoscibile uno “stile Bertolucci”. Il successo e lo scandalo di «Ultimo tango a Parigi» (1973) lo faranno conoscere in tutto il mondo. È la sentenza del tribunale che, dopo denunce e roghi, “riabilitò” il film nel 1987 a trovare le migliori parole-chiave: «Amore e morte, sesso e distruzione, piacere e crisi sono i temi che danno al film piena dignità di opera d’arte». Se non ci fossero la Storia, la politica, le lotte sociali a necessitare di ritmi e dimensioni da kolossal epico, anche il successivo «Novecento» - smisurato nell’ambizione e nella durata - farebbe risaltare quei temi. Ma sono tempi cruciali: «’Novecento’ - dichiarò il regista qualche anno fa - viene completato quando muore Pasolini, e la sua morte segna la fine del ´68. Il film esce nel ´76, nel momento magico Moro-Berlinguer, del sogno del compromesso storico». «La luna» (1979) e «La tragedia di un uomo ridicolo» (1981) con un Tognazzi finalmente consacrato a Cannes, paiono registrare la fine di quel sogno. E anche una lunga pausa che condurrà sei anni dopo alla realizzazione de «L'ultimo imperatore», il sontuoso blockbuster da nove premi Oscar, tra cui quelli per il miglior film e la migliore regia.

Bertolucci ha quarantasei anni e il tragitto «da Pasolini a Hollywood» è compiuto. I film successivi («Il tè nel deserto», «Il piccolo Buddha», «Io ballo da sola», «L'assedio», «The Dreamers», «Io e te»), con alterno gradimento di pubblico e critica, non aggiungono granché nel definire la sua poetica: «In un tempo in cui la politica, come ideali e idealismo, è stata punita e umiliata - dichiarò vent’anni fa - bisogna cercare altre cose. La bellezza, per esempio».



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