Liberalismo: fuga dal branco
Edmund Wilson, forse il maggior critico letterario americano del’900, diede alle stampe nel 1940, all’apice della sua carriera e quando, a dire il vero, la sua scrittura si indirizzava verso una...
26 ottobre 2019
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Edmund Wilson, forse il maggior critico letterario americano del’900, diede alle stampe nel 1940, all’apice della sua carriera e quando, a dire il vero, la sua scrittura si indirizzava verso una forma più narrativa che esclusivamente saggistica, un’ambiziosa storia del pensiero socialista e comunista dalla Rivoluzione francese fino alla presa di potere dei bolscevichi in Russia, ricostruita attraverso l’opera di pensatori quali Michelet, Marx, Bakunin e Lenin.
Il saggio, intitolato “Stazione Finlandia”, che è rimasto un classico pur non essendo il libro di uno specialista, si contraddistingue per il punto di vista soggettivo, per un’«intensità religiosa», come l’ha recentemente definita Michael McDonald, che è quella di un entusiasta, un entusiasta, aggiungiamo, che di lì a poco si sarebbe ricreduto. Non è un caso che Mario Vargas Llosa si sia ispirato proprio al libro di Wilson per scrivere “Il richiamo della tribù” (257 pagg., 18,00 euro), appena pubblicato da Einaudi, editore presso cui è in corso di pubblicazione l’intera opera dello scrittore peruviano. Vargas Llosa, il quale dichiara in apertura questa imprescindibile «remota origine», non nasconde di voler «fare per il liberalismo ciò che il critico nordamericano aveva fatto per il socialismo», vale a dire raccontare l’evoluzione delle idee liberali attraverso i suoi esponenti principali e gli eventi storici e sociali che ne consentirono la diffusione nel mondo.
Perciò il libro si articola in sette capitoli dedicati ad altrettanti pensatori che l’autore ritiene fondamentali nella sua formazione, non solo politica, e vale a dire Adam Smith, José Ortega y Gasset, Friedrich von Hayek, Karl Popper, Isaiah, Berlin, Raymond Aron e Jean Francois Revel; e secondo una scansione cronologica che parte dal 1723, anno di nascita di Smith, fino al 2006, quando morì Revel. L’idea di liberalismo che il lettore ne inferisce è quella di una «dottrina che non fornisce risposte per tutto, come pretende di fare il marxismo, e ammette al proprio interno il disaccordo e la critica, a partire da un nucleo ridotto ma indiscutibile di convinzioni»; esso «non è dogmatico, sa che la realtà è complessa e che spesso le idee e i programmi politici, se vogliono avere successo, devono adattarsi a essa invece di ingabbiarla in schemi rigidi, cosa che in genere li fa fallire e scatena la violenza politica»; ma è soprattutto l’unica dottrina capace di liberarci da ciò che Popper definiva «lo spirito della tribù», vale a dire «l’irrazionalismo dell’essere umano primitivo» il quale si percepisce come una parte inscindibile dalla collettività, ed è sottomesso «come l’animale nella mandria a un capo onnipotente»; disposizione che è «radice del nazionalismo (…) responsabile delle più grandi stragi dell’umanità».
Sebbene Vargas Llosa non manchi di precisare che “Il richiamo della tribù” è un libro autobiografico, il lettore non potrà fare a meno di osservare che egli si riferisce ad essa, almeno nei termini più espliciti, soltanto e brevemente nel testo introduttivo. Ma, a libro chiuso, non potrà non riconoscere che lo scrittore parla dei suoi autori per parlare di sé e dell’America latina e della Spagna, nazione dove risiede dal 1993.
Egli potrebbe essere definito, parafrasando Berardinelli, un «diagnostico della civiltà (che) esplora di volta in volta una monade morale, un destino, un sistema di valori trasformati in stile, una visione del mondo». Non si dimentichi ciò che egli dichiarò nel 2010 nel discorso pronunciato per l’ accettazione del Premio Nobel, quando sostenne che la letteratura contrasta il «pragmatismo degli specialisti», i quali approfondiscono singoli oggetti di conoscenza, ma «ignorano ciò che sta loro intorno, ciò che sta prima e ciò che sta dopo».
Il saggio, intitolato “Stazione Finlandia”, che è rimasto un classico pur non essendo il libro di uno specialista, si contraddistingue per il punto di vista soggettivo, per un’«intensità religiosa», come l’ha recentemente definita Michael McDonald, che è quella di un entusiasta, un entusiasta, aggiungiamo, che di lì a poco si sarebbe ricreduto. Non è un caso che Mario Vargas Llosa si sia ispirato proprio al libro di Wilson per scrivere “Il richiamo della tribù” (257 pagg., 18,00 euro), appena pubblicato da Einaudi, editore presso cui è in corso di pubblicazione l’intera opera dello scrittore peruviano. Vargas Llosa, il quale dichiara in apertura questa imprescindibile «remota origine», non nasconde di voler «fare per il liberalismo ciò che il critico nordamericano aveva fatto per il socialismo», vale a dire raccontare l’evoluzione delle idee liberali attraverso i suoi esponenti principali e gli eventi storici e sociali che ne consentirono la diffusione nel mondo.
Perciò il libro si articola in sette capitoli dedicati ad altrettanti pensatori che l’autore ritiene fondamentali nella sua formazione, non solo politica, e vale a dire Adam Smith, José Ortega y Gasset, Friedrich von Hayek, Karl Popper, Isaiah, Berlin, Raymond Aron e Jean Francois Revel; e secondo una scansione cronologica che parte dal 1723, anno di nascita di Smith, fino al 2006, quando morì Revel. L’idea di liberalismo che il lettore ne inferisce è quella di una «dottrina che non fornisce risposte per tutto, come pretende di fare il marxismo, e ammette al proprio interno il disaccordo e la critica, a partire da un nucleo ridotto ma indiscutibile di convinzioni»; esso «non è dogmatico, sa che la realtà è complessa e che spesso le idee e i programmi politici, se vogliono avere successo, devono adattarsi a essa invece di ingabbiarla in schemi rigidi, cosa che in genere li fa fallire e scatena la violenza politica»; ma è soprattutto l’unica dottrina capace di liberarci da ciò che Popper definiva «lo spirito della tribù», vale a dire «l’irrazionalismo dell’essere umano primitivo» il quale si percepisce come una parte inscindibile dalla collettività, ed è sottomesso «come l’animale nella mandria a un capo onnipotente»; disposizione che è «radice del nazionalismo (…) responsabile delle più grandi stragi dell’umanità».
Sebbene Vargas Llosa non manchi di precisare che “Il richiamo della tribù” è un libro autobiografico, il lettore non potrà fare a meno di osservare che egli si riferisce ad essa, almeno nei termini più espliciti, soltanto e brevemente nel testo introduttivo. Ma, a libro chiuso, non potrà non riconoscere che lo scrittore parla dei suoi autori per parlare di sé e dell’America latina e della Spagna, nazione dove risiede dal 1993.
Egli potrebbe essere definito, parafrasando Berardinelli, un «diagnostico della civiltà (che) esplora di volta in volta una monade morale, un destino, un sistema di valori trasformati in stile, una visione del mondo». Non si dimentichi ciò che egli dichiarò nel 2010 nel discorso pronunciato per l’ accettazione del Premio Nobel, quando sostenne che la letteratura contrasta il «pragmatismo degli specialisti», i quali approfondiscono singoli oggetti di conoscenza, ma «ignorano ciò che sta loro intorno, ciò che sta prima e ciò che sta dopo».