Giorgio Colangeli: «Sogno e realtà nel racconto dell’Italia di oggi»
di Alessandro Pirina
L’attore al Tff di Torino con “Lontano lontano” Nel film l’ultima interpretazione di Fantastichini
30 novembre 2019
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C’è l’Italia di oggi, divisa tra ottimismo e sfiducia, tra sogno e dura realtà, negli ultimi due film di Giorgio Colangeli. Due pellicole dal sapore amaro, malinconico con la magia di Roma sullo sfondo. L’attore romano è in sala con “A Tor Bella Monaca non piove mai”, che segna il debutto alla regia di Marco Bocci, con Libero De Rienzo, Andrea Sartoretti e Antonia Liskova. Al festival di Torino è stato invece presentato “Lontano lontano” diretto da Gianni Di Gregorio, che ne è anche il protagonista insieme allo stesso Colangeli e a Ennio Fantastichini, nella sua ultima interpretazione, che sarà al cinema da febbraio. Due film che vanno ad arricchire il già ricco e lungo curriculum di Colangeli.
“Lontano lontano” è la storia di tre pensionati settantenni che pensano di lasciare l’Italia perché a Roma non riescono ad arrivare a fine mese. Una storia molto attuale, purtroppo.
«Anche io ho sentito storie di pensionati non necessariamente poveri che qui al massimo possono sopravvivere e che hanno pensato di andarsene all’estero perché con la stessa cifra possono fare la vita da gran signori. Questo è il punto di partenza del film, ma dentro ci sono tante altre cose. A un certo punto il viaggio diventa più importante della meta. Una sorta di viaggio morale che lascia i tre protagonisti migliori di prima».
Uno dei protagonisti del film è Ennio Fantastichini, di cui domani ricorre il primo anniversario della morte.
«Ho avuto la fortuna di conoscerlo prima come spettatore. Io sono arrivato al cinema a quasi 40 anni, mentre lui ha iniziato da giovanissimo, ha fatto l’Accademia, la strada maestra, ha lavorato con tutti i più grandi. Diciamo che ha avuto una carriera che gli ho sempre un po’ invidiato. Era più giovane di me di qualche anno, ma lo consideravo una sorta di fratello maggiore, anche prima di conoscerlo. Lo ricordo sempre un po’ arrabbiato, perché magari costretto a fare cose che lui per primo riteneva meno adeguate. Nella vita di tutti i giorni come sul lavoro era un uomo di grande schiettezza e sincerità. Era uno che non aveva residui tra quello che era e quello che appariva. Lo ricordo in “Ferie d’agosto” di Paolo Virzì, faceva un personaggio odioso impossibile da amare, ma lui riusciva a conferirgli umanità».
Nel film a fare da sfondo c’è Roma, la sua città. Ma la capitale è davvero così invivibile come viene spesso dipinta?
«È vero che Roma è bellissima, unica, ma è anche vero che è piena di problemi, è di dimensioni ingovernabili. È una città sull’orlo della crisi, ma mettendo insieme turisti, residenti, istituzioni, commercio è uno spettacolo quotidiano. Roma potrebbe essere un museo a cielo aperto, ma non lo è. Per fortuna è viva e quando si vive si inquina, si soffre. Ogni sera Roma è stanca da morire, ma sa anche che l’indomani mattina deve ripartire».
Roma è protagonista anche dell’altro suo film attualmente in sala, “A Tor Bella Monaca non piove mai” di Marco Bocci, che racconta le difficoltà di un 35enne a trovare lavoro e mettere su famiglia.
«È un film fatto da un giovane e con dentro tanti giovani. Ma è più amaro di quello di Gianni. “Lontano lontano” è garbato, un po’ nostalgico, ma non negativo. Anzi, sull’umanità è ottimista. Emerge una certa fiducia che l’uomo abbia di fondo qualità come l’ospitalità, l’accoglienza. Il film di Marco, invece, ce ne fa dubitare. Il mio personaggio, per esempio, è un padre di famiglia, persona onesta che sente di subire ingiustizie e si appella alla legge. Ma alla fine è quasi obbligato a pensare che essere onesti non conviene. Considerazione amarissima ma attuale».
Nel suo curriculum colpisce il titolo di studio: una laurea in Fisica. Insolito per un attore.
«In realtà io avrei voluto fare Filosofia della scienza. Mi interessava capire come funzionava la fisica. Ai tempi i programmi erano molto rigidi e optai così direttamente per Fisica. La laurea l’ho presa, non senza fatica, ma non me ne sono mai pentito. Soprattutto in una società come quella attuale che santifica la tecnologia pensando che sia scienza. Io, avendo studiato cosa è veramente la scienza, sono fuori da certi fraintendimenti».
All’insegnamento a scuola ha preferito la recitazione.
«Io non avevo mai pensato di fare l’attore. Ho cominciato per hobby nel 1974. Nel frattempo mi sono laureato, ho iniziato a insegnare. A un certo punto ho deciso di dedicarmi solo al teatro, cosa che mi appaga ancora oggi. Poi il teatro era diventato una sorta di soffitta di cristallo e ho iniziato a fare cinema, che mi ha dato visibilità. La tv invece mi ha dato la popolarità. Cose forse non indispensabili, ma sono soddisfazioni che ti mettono in assoluta armonia con la vita».
Al cinema si divide tra grandi maestri, da Scola a Sorrentino, e registi emergenti.
«Ho sempre avuto una certa propensione a lavorare con i giovani, è la mia attitudine alla didattica. Mi piace poter trasferire conoscenza, anche se c’è una riluttanza diffusa a passare il testimone alle nuove generazioni. Credo sia doveroso fare qualcosa in controtendenza. Io sono uno che vaglia le proposte e non si tira indietro solo perché non conosce il regista. Non posso dimenticare che la mia affermazione al cinema è stata con “L’aria salata” di Alessandro Angelini, al suo primo film, grazie a cui sono arrivati il Marc’Aurelio al Festival di Roma e il David».
Nel 2018 è uscito “Fiore gemello” di Laura Luchetti, girato in Sardegna e pluripremiato.
«È un film che ha fatto il giro del mondo come accade a tante opere prime e seconde, ma prendere tanti premi non è da tutti. Laura ha sempre detto che il film ha trovato nella Sardegna più di uno strumento di espressione. Era tagliato sull’isola».
Per lei non è stata la prima volta sul set in Sardegna.
«Avevo preso parte alla fiction Rai “L’ultima frontiera”, girata nel Nuorese. Poi una piccola partecipazione in “Una piccola impresa meridionale” di Rocco Papaleo. Ma la Sardegna l’ho girata in lungo e in largo a teatro. L’ultima volta ho fatto un tour in teatri piccolissimi. E ho trovato anche la neve».
“Lontano lontano” è la storia di tre pensionati settantenni che pensano di lasciare l’Italia perché a Roma non riescono ad arrivare a fine mese. Una storia molto attuale, purtroppo.
«Anche io ho sentito storie di pensionati non necessariamente poveri che qui al massimo possono sopravvivere e che hanno pensato di andarsene all’estero perché con la stessa cifra possono fare la vita da gran signori. Questo è il punto di partenza del film, ma dentro ci sono tante altre cose. A un certo punto il viaggio diventa più importante della meta. Una sorta di viaggio morale che lascia i tre protagonisti migliori di prima».
Uno dei protagonisti del film è Ennio Fantastichini, di cui domani ricorre il primo anniversario della morte.
«Ho avuto la fortuna di conoscerlo prima come spettatore. Io sono arrivato al cinema a quasi 40 anni, mentre lui ha iniziato da giovanissimo, ha fatto l’Accademia, la strada maestra, ha lavorato con tutti i più grandi. Diciamo che ha avuto una carriera che gli ho sempre un po’ invidiato. Era più giovane di me di qualche anno, ma lo consideravo una sorta di fratello maggiore, anche prima di conoscerlo. Lo ricordo sempre un po’ arrabbiato, perché magari costretto a fare cose che lui per primo riteneva meno adeguate. Nella vita di tutti i giorni come sul lavoro era un uomo di grande schiettezza e sincerità. Era uno che non aveva residui tra quello che era e quello che appariva. Lo ricordo in “Ferie d’agosto” di Paolo Virzì, faceva un personaggio odioso impossibile da amare, ma lui riusciva a conferirgli umanità».
Nel film a fare da sfondo c’è Roma, la sua città. Ma la capitale è davvero così invivibile come viene spesso dipinta?
«È vero che Roma è bellissima, unica, ma è anche vero che è piena di problemi, è di dimensioni ingovernabili. È una città sull’orlo della crisi, ma mettendo insieme turisti, residenti, istituzioni, commercio è uno spettacolo quotidiano. Roma potrebbe essere un museo a cielo aperto, ma non lo è. Per fortuna è viva e quando si vive si inquina, si soffre. Ogni sera Roma è stanca da morire, ma sa anche che l’indomani mattina deve ripartire».
Roma è protagonista anche dell’altro suo film attualmente in sala, “A Tor Bella Monaca non piove mai” di Marco Bocci, che racconta le difficoltà di un 35enne a trovare lavoro e mettere su famiglia.
«È un film fatto da un giovane e con dentro tanti giovani. Ma è più amaro di quello di Gianni. “Lontano lontano” è garbato, un po’ nostalgico, ma non negativo. Anzi, sull’umanità è ottimista. Emerge una certa fiducia che l’uomo abbia di fondo qualità come l’ospitalità, l’accoglienza. Il film di Marco, invece, ce ne fa dubitare. Il mio personaggio, per esempio, è un padre di famiglia, persona onesta che sente di subire ingiustizie e si appella alla legge. Ma alla fine è quasi obbligato a pensare che essere onesti non conviene. Considerazione amarissima ma attuale».
Nel suo curriculum colpisce il titolo di studio: una laurea in Fisica. Insolito per un attore.
«In realtà io avrei voluto fare Filosofia della scienza. Mi interessava capire come funzionava la fisica. Ai tempi i programmi erano molto rigidi e optai così direttamente per Fisica. La laurea l’ho presa, non senza fatica, ma non me ne sono mai pentito. Soprattutto in una società come quella attuale che santifica la tecnologia pensando che sia scienza. Io, avendo studiato cosa è veramente la scienza, sono fuori da certi fraintendimenti».
All’insegnamento a scuola ha preferito la recitazione.
«Io non avevo mai pensato di fare l’attore. Ho cominciato per hobby nel 1974. Nel frattempo mi sono laureato, ho iniziato a insegnare. A un certo punto ho deciso di dedicarmi solo al teatro, cosa che mi appaga ancora oggi. Poi il teatro era diventato una sorta di soffitta di cristallo e ho iniziato a fare cinema, che mi ha dato visibilità. La tv invece mi ha dato la popolarità. Cose forse non indispensabili, ma sono soddisfazioni che ti mettono in assoluta armonia con la vita».
Al cinema si divide tra grandi maestri, da Scola a Sorrentino, e registi emergenti.
«Ho sempre avuto una certa propensione a lavorare con i giovani, è la mia attitudine alla didattica. Mi piace poter trasferire conoscenza, anche se c’è una riluttanza diffusa a passare il testimone alle nuove generazioni. Credo sia doveroso fare qualcosa in controtendenza. Io sono uno che vaglia le proposte e non si tira indietro solo perché non conosce il regista. Non posso dimenticare che la mia affermazione al cinema è stata con “L’aria salata” di Alessandro Angelini, al suo primo film, grazie a cui sono arrivati il Marc’Aurelio al Festival di Roma e il David».
Nel 2018 è uscito “Fiore gemello” di Laura Luchetti, girato in Sardegna e pluripremiato.
«È un film che ha fatto il giro del mondo come accade a tante opere prime e seconde, ma prendere tanti premi non è da tutti. Laura ha sempre detto che il film ha trovato nella Sardegna più di uno strumento di espressione. Era tagliato sull’isola».
Per lei non è stata la prima volta sul set in Sardegna.
«Avevo preso parte alla fiction Rai “L’ultima frontiera”, girata nel Nuorese. Poi una piccola partecipazione in “Una piccola impresa meridionale” di Rocco Papaleo. Ma la Sardegna l’ho girata in lungo e in largo a teatro. L’ultima volta ho fatto un tour in teatri piccolissimi. E ho trovato anche la neve».