La Nuova Sardegna

Tra Segni e Moro braccio di ferro per la supremazia

di Salvatore Mura
Tra Segni e Moro braccio di ferro per la supremazia

I due leader portatori di visioni politiche contrastanti: ancoraggio al liberalismo e apertura al Partito socialista 

20 dicembre 2019
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La storia delle relazioni politiche fra Antonio Segni e Aldo Moro può sembrare lineare, di semplice e immediata interpretazione, ma è in realtà complessa e tortuosa. Un’analisi del rapporto fra Segni e Moro può partire dal luglio 1955, cioè da quando Moro divenne ministro della Giustizia nel primo governo presieduto da Segni. E tuttavia, sino al consiglio nazionale del marzo 1959, che elesse Moro segretario della Democrazia cristiana, il rapporto fra i due, sebbene interessante, non influì particolarmente sulla direzione politica dello Stato italiano. Dalla primavera del 1959 all’estate del 1964, invece, Segni e Moro si ritrovarono diversamente protagonisti della stagione del centro-sinistra: il loro rapporto, dunque, assume un’altra rilevanza storica e un altro valore storiografico.

TATTICA E STRATEGIA. Finora si sono rimarcati quasi esclusivamente i molti punti di contrasto, rafforzando l’immagine di due politici alternativi, assai differenti per metodo e obiettivi. È innegabile, d’altronde, che Moro avesse una concezione del ruolo del «partito dei cattolici» ben diversa da quella di Segni. Eppure, durante gli anni del centro-sinistra, i punti di incontro furono più d’uno e di grande importanza. L’opportunità, il calcolo, la tattica e la strategia politica, ma anche le ambizioni personali, spinsero in più occasioni l’uno a cercare il sostegno dell’altro. Queste convergenze, dettate da interessi coincidenti, influenzarono fortemente le scelte della Dc, la vita di alcuni governi, le elezioni presidenziali.

ALLEANZE. Non è così semplice, in mancanza di documenti, spiegare perché nel marzo del 1959, Antonio Segni, che allora era presidente del Consiglio, promosse la candidatura di Aldo Moro, e non quella – ad esempio – di Mariano Rumor, già vicesegretario della Dc. E perché no il giovane e fidato Colombo? La scelta di un uomo come Moro era una garanzia di “antifanfanismo” e non avrebbe diviso il “gruppo Segni”. Moro era stato ministro per la prima volta nel primo esecutivo guidato dal politico sardo. Non aveva mai attaccato pubblicamente e in modo radicale Segni. Sino al 1959 non aveva dimostrato grandi capacità di leadership, né all’interno del partito aveva avuto incarichi di alto rilievo, a differenza di Rumor. Un segretario di scarsa esperienza sarebbe stato sorvegliato con più facilità dai segniani.

SEGRETARIO DEBOLE. Era diffusa la convinzione che il politico pugliese non avesse le qualità per guidare la Dc in una fase tanto delicata. Con un segretario debole, un commissario a tempo, il partito non avrebbe preso (o avrebbe preso con più difficoltà) il sopravvento nei confronti del governo. È assai probabile che l’idea di Segni fosse simile a quella di molti notabili democristiani: puntare su Moro come soluzione provvisoria in attesa del Congresso. Furono i segniani a premere per impedire il ritorno di Fanfani alla guida della Dc, perché esso avrebbe portato all’uscita dei liberali dal governo Segni, e quindi all’immediata caduta. Nel consiglio nazionale toccò a Emilio Colombo, «fedele segniano», il compito di portare avanti le posizioni del presidente del Consiglio.

CALCOLI SBAGLIATI. Fu il giovane e abile politico di Potenza ad avanzare esplicitamente la candidatura Moro. «Guai – avvertiva Colombo mentre il consiglio nazionale si era protratto sino a tarda serata – se noi dessimo l’impressione che non siamo in grado di eleggere un segretario politico». L’elezione di Moro, peraltro inaspettatamente a larga maggioranza, celebrò la vittoria di Segni su Fanfani. I calcoli del politico sardo sulle potenzialità di Moro, tuttavia, si sarebbero rivelati sbagliati. Il neo segretario, che si prevedeva avrebbe lavorato per rafforzare il fragile governo Segni, rilanciò, prima timidamente e poi con sempre maggiore forza, l’apertura a sinistra. Moro non si curò di sostenere all’interno della Dc l’operato del presidente del Consiglio, né intervenne per mediare con il Partito liberale, che aveva preso atto della distanza di Moro da Segni. Quest’ultimo non aveva la forza di respingere le pressioni che arrivavano dal suo partito. L’asse Moro-Fanfani metteva all’angolo Segni e tutta quella parte della Dc rivolta verso i liberali. E non fu certo il capo dello Stato a difendere il presidente del Consiglio, ma anzi il suo viaggio in Unione Sovietica (5-11 febbraio 1960) accelerò la caduta del governo.

UOMINI FIDATI. Anche Moro, qualche anno dopo, avrebbe sottovalutato le potenzialità politiche di Segni, convinto che la sua ascesa al Quirinale sarebbe stata più un contrappeso di garanzia che un impedimento alla realizzazione della sua strategia di apertura a sinistra. Durante il biennio di presidenza, Segni svolse un ruolo di estrema rilevanza nel determinare gli indirizzi politici della Democrazia cristiana, in particolare attraverso colloqui, carteggi privati e l’attività di uomini fidati (Emilio Colombo, ad esempio). Moro era arrivato al suo più grande proposito, che consisteva nel mostrare la possibilità di una collaborazione tra cattolici e socialisti, ma nella fase di formazione del primo governo “organico” col Partito socialista e poi nelle scelte dell’esecutivo era intervenuto Segni, raggiungendo il suo obiettivo, e cioè trasformando il centro-sinistra riformatore in un centro-sinistra moderato.

IL RUOLO DI CARLI. Ai primi di giugno del 1964 il presidente della Repubblica aveva già raggiunto importanti risultati. Sul piano politico, Moro aveva perso la guida del partito; Rumor, più vicino a Segni, era diventato segretario; la maggioranza della Dc era delusa dei risultati del centro-sinistra e l’alleanza di governo con il PSI, duramente attaccata da più parti, attraversava una profonda crisi. Sul piano economico, era passata la linea del governatore della Banca d’Italia Guido Carli (non quella di Antonio Giolitti), e quindi aveva vinto Segni. Il contesto internazionale era cambiato. Moro aveva perduto due importanti riferimenti «esterni»: il 3 giugno del 1963 era morto Giovanni XXIII e il 22 novembre dello stesso anno era stato assassinato Kennedy. L’esperimento del centro-sinistra, già agli inizi dell’estate del 1964 era particolarmente fragile, condizionato e ridimensionato. Le sue sorti erano state, se non proprio segnate definitivamente, certo vincolate dal mutato quadro politico, economico e internazionale.



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