La Nuova Sardegna

Dessì a Sassari, gli anni dell’impegno contro il fascismo

di Salvatore Tola
Dessì a Sassari, gli anni dell’impegno contro il fascismo

Da venerdì 17 in edicola il volume dedicato allo scrittore. Il periodo del liceo a Cagliari con Delio Cantimori

16 gennaio 2020
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Molte delle opere narrative che Giuseppe Dessì ci ha lasciato sono ambientate a Villacidro e nelle sue campagne. Là aveva le sue origini però non ci era nato: ci aveva trascorso soltanto periodi più o meno lunghi dell’infanzia e dell’adolescenza, quando il padre, militare di carriera, era chiamato lontano. Ma restava per lui luogo d’affezione: «Io potrei avere girato il mondo, ma Villacidro è la mia patria». Per il resto la sua vita fu per anni un continuo peregrinare da un luogo all’altro: lo portava un faticoso processo di studio e di maturazione, poi l’attività di insegnante e infine di provveditore agli studi.

Non amava la scuola e la frequentò saltuariamente; il padre quando poteva lo seguiva, e lo affidò anche a insegnanti privati ma, ha ricordato, rimaneva «un ragazzo indisciplinato», anche se «avido di letture». Finalmente, a quasi vent’anni, approdò al liceo «Dettori» di Cagliari, dove fece alcuni incontri fortunati. Il primo con un professore di filosofia e storia, il romagnolo Delio Cantimori, che proveniva dalla Normale di Pisa e portava una ventata di novità, compresa l’attenzione per i problemi della Sardegna. Cominciò così a discutere con gli allievi, lasciano da parte il programma, sulla necessità di combattere l’analfabetismo, grande piaga delle zone interne. Intervennero «alcuni bellimbusti in camicia nera e cinturone» (si era in pieno regime fascista) per sconsigliare di procedere: ma «non potevano certo immaginare», commenta lo scrittore, «che per alcuni di noi era cominciata la Resistenza».

Il secondo incontro fu con un compagno, Claudio Varese, che si preparava a diventare studioso della letteratura e critico; e che, suo estimatore, lo avrebbe sostenuto con i propri scritti e aiutato a pubblicare le prime opere. Finito il liceo andarono entrambi a Pisa, dove fecero incontri decisivi, come quelli con Aldo Capitini e Carlo Ludovico Ragghianti, e si laurearono. Si trovarono poi ancora uniti a Ferrara, come giovani insegnanti, dove poterono allargare il sodalizio fino a costituire un memorabile cenacolo letterario. Si aggiunsero altri due sardi, Franco, il fratello di Dessì (che faceva prove di poeta e in seguito avrebbe vissuto e insegnato a Sassari), e l’oschirese Mario Pinna, destinato a specializzarsi nella letteratura spagnola. Con loro si incontrava quotidianamente Giorgio Bassani, più giovane (era del 1916), che avrebbe lasciato il ritratto di ognuno di loro nel suo primo romanzo, «Una città di pianura».

Dopo qualche tempo Dessì approdò a Sassari, con la carica di provveditore agli Studi: «Ho vissuto a Sassari sette anni», ha scritto più tardi ricordando l’amicizia con Eugenio Tavolara, «sette anni fondamentali della mia vita: 1942-1948. Così carichi di avvenimenti e di esperienze che siamo ancora lì a sciogliere i nodi che allora ci siamo ritrovati tra le mani». E in effetti, giunto ormai a consolidare la posizione liberalsocialista di cui aveva messo le basi a Pisa, diede il suo contributo al ritorno della città e della Sardegna alla vita democratica. Già alla fine dell’estate del 1943 si impegnò per organizzare, collaborando con Mario Belinguer, un Comitato di concentrazione antifascista. Dopo di che pensò alla ricostituzione di una sezione cittadina del Psi. Ne parlò con Antonio Borio, che al suo arrivo lo aveva messo in contatto con gli altri antifascisti del luogo, e coinvolsero Salvatore Cottoni, avvocato e in seguito esponente socialdemocratico. Ne parlarono anche con Francesco Spanu Satta, che però era di orientamento cattolico e si defilò. Con Spanu Satta lavorarono poi, a partire dall’estate del 1944, per la redazione del settimanale «Riscossa», avviato col consenso delle autorità americane per favorire la ripresa del dibattito culturale e politico, e per discutere sul futuro che si andava prospettando per l’isola nel difficile dopoguerra. A Dessì il compito di scrivere l’editoriale del primo numero, intitolato «Amammo un’immagine segreta della libertà»: nel pieno del regime fascista, ricordava, «nell’animo di molti» si era generato «l’amore per la libertà e l’aspirazione a forme di vita politica e sociale così diverse da quelle nelle quali erano cresciuti». Al momento tutte «queste forze dell’antifascismo giovane» si andavano inserendo nei «vecchi partiti tradizionali», ma col tempo avrebbero saputo darsi «la propria organizzazione politica, la propria vita».

Ma l’episodio che ricordava più volentieri risaliva al maggio del 1942, quando il vecchio regime era ancora in piedi. Insieme alla moglie aveva preparato, con dei rustici timbri di gomma, dei manifestini antifascisti, e aspettava il momento buono per «inondare la città». Dovendo partire li affidò a Borio che, anche per non comprometterlo, decise con Cottoni di diffonderli mentre era assente. Quando tornò il federale Offeddu lo convocò e, mostrandogli un pugno dei manifestini che lui stesso aveva stampigliato, sbottò: «Guardate cosa mi hanno fatto!». Nel ricostruire la vicenda, anni dopo, aveva l’impressione di vedere Cottoni che si aggirava per la città di notte, «con la valigia brandita, e nella sua anima confusa di social-democratico pensava a Bakunin, alla Kuliscioff, a Malatesta»; poi, arrivato «all’altezza del Palazzo di Giustizia, sbatté a terra la valigia, l’aprì, prese due pugni di volantini e li sparse col gesto ampio del seminatore». Conosciuta questa versione Borio, che aveva partecipato all’impresa, scrisse per precisare che Cottoni «durante tutto il percorso canticchiava “Lilì Marlén”».

Dopo il periodo sassarese Dessì conobbe alcune altre sedi, poi finalmente approdò a Roma, dove trascorse l’ultimo periodo della vita. Conobbe alcune importanti affermazioni letterarie, come la pubblicazione del romanzo «Paese d’ombre», premiato con lo «Strega»; ma fu colpito da una malattia che lo ridusse prematuramente, scriveva, a un «vecchio infermo». Aveva come dirimpettaia Maria Lai, e si vedevano dalle finestre: l’artista raccontava che quando aveva ospiti, o organizzava qualche piccola festa, lo scrittore sbirciava con un misto di malinconia e di invidia.

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