La Nuova Sardegna

De Bortoli: per ripartire diciamoci la verità

di Pier Luigi Rubattu
De Bortoli: per ripartire diciamoci la verità

Nell’Italia travolta dal virus c’è chi ha reagito alla grande e chi ne ha approfittato. L’analisi dell’editorialista del Corriere

23 novembre 2020
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Con l’arrivo dei vaccini l’Italia potrebbe riemergere dalla seconda ondata della pandemia come uscì dalla seconda guerra mondiale: esausta ma iperattiva, impoverita ma ricca di sogni, e decisa a realizzarli.

«Finora ci siamo comportati bene – dice Ferruccio de Bortoli, editorialista del Corriere della Sera, di cui è stato direttore due volte, per 12 anni complessivi –. Abbiamo i negazionisti, ma i nostri sono negazionisti da avanspettacolo. Non abbiamo avuto le manifestazioni dei trentamila a Berlino o dei suprematisti armati in alcuni Stati americani. Le imprese più esposte al mercato e alla concorrenza internazionale hanno reagito non bene ma benissimo alla prima ondata. E stiamo dando buona prova anche nella seconda, pur se lo spirito è totalmente diverso, perché non vedi gente sui balconi, e nessuno ringrazia medici e infermieri».

Due Italie. Ma c’è anche l’altra Italia che de Bortoli descrive – e critica – nel suo ultimo libro, Le cose che non ci diciamo (fino in fondo) (Garzanti, 160 pagine, 16 euro): un Paese impigrito, assuefatto ai sussidi e al mostruoso e perenne debito pubblico, una Repubblica non più fondata sul lavoro, ma «paternalista e assistenziale».

Insomma, cos’è che non ci dicono, non ci diciamo, forse non vogliamo nemmeno sentire?

«Bisogna dire la verità agli italiani. Non puoi pensare che lo Stato ti sorregga sempre, ti porti a casa il lavoro. Non esiste un diritto al benessere, bisogna sacrificarsi, investire come hanno fatto i nostri genitori e i nostri nonni. La domanda da porre alla mia generazione è questa: noi ci stiamo comportando come loro?».

Favori alle corporazioni. La risposta data nel libro è negativa. De Bortoli, 67 anni, milanese, presidente della casa editrice Longanesi e dell’associazione Vidas, ritrae un’Italia smemorata e imprevidente. Fa un lungo elenco di favori alle corporazioni, di regali con i soldi pubblici, di aziende che durante la pandemia hanno guadagnato di più e pagato meno tasse… «Un esempio: noi dobbiamo sostenere il servizio sanitario nazionale che ci costa 120 miliardi all’anno. È finanziato in parte da un’imposta regionale che si chiama Irap. Se veramente teniamo al nostro servizio pubblico, le aziende che sono andate bene e non hanno pagato l’Irap in giugno dovrebbero sentirsi moralmente in imbarazzo. Il servizio sanitario non può pesare troppo sui redditi da lavoro, che sono sempre di meno: alla fine non stiamo in piedi. Anche togliere il superticket è stata una scelta populista. Chi guadagna di più in questa fase ha il dovere morale di fare qualcosa di più».

E perché non lo fa? «L’Italia ha molte virtù, ma anche tanti difetti che dovrebbe riconoscere. Durante la pandemia ci sono stati aspetti socialmente meno condivisibili, tanti se ne sono un po’ approfittati. Un terzo dei redditi è stato colpito duramente: vanno aiutati, ma se erano evasori si devono impegnare, al ritorno alla normalità, a uscire dal nero. Tu non puoi promettere che con i soldi europei ridurrai le tasse. E ancora: io non sono per una patrimoniale, ma mi devono spiegare perché l’Italia è un paradiso fiscale per le imposte di successione».

Scuse per quota 100. De Bortoli parla anche di «risorse prese in prestito da figli e nipoti» e ricorda che Quota 100 «ha messo un debito pubblico di 63 miliardi sulle spalle delle prossime generazioni. Tra i lavoratori ai quali ha consentito di andare in pensione ci sono settemila medici e infermieri che oggi alla sanità pubblica sarebbero molto, ma molto utili. Quota 100 è stata spacciata come una misura per far entrare i giovani, ma è la Corte dei conti a dire che non è servita a creare posti di lavoro. In più ha fatto un grande favore alle banche, che hanno tagliato i posti. In un Paese serio chi ha proposto quota 100 dovrebbe chiedere scusa».

Torniamo sempre qui, alle due Italie possibili nel dopo pandemia: quella che avrebbe tutte le qualità per rivivere l’euforia del miracolo economico; e quella propensa a gustare i piaceri ingannevoli del declino.

«In questo libro esprimo innanzitutto una preoccupazione: dobbiamo tenere insieme l’emergenza e le prospettive di sviluppo subito dopo la pandemia. E dobbiamo evitare che lo Stato fallisca. Guai a pensare che ci si possa indebitare senza limiti, che lo Stato possa fare tutto, proteggere, sussidiare, integrare. Non si può vivere di ristori, dobbiamo avere la forza di pensare al futuro, fare investimenti e soprattutto impiegare al meglio le risorse europee. Altrimenti perderemo l’unica occasione di fare una svolta vera come quella del dopoguerra e di tornare a crescere sostenendo il debito e pensando ai nostri figli e nipoti».

Le competenze trascurate. È un cruccio che percorre tutto il libro: l’Italia presta scarsa attenzione al suo capitale umano, alle competenze delle persone. «Che fine hanno fatto i banchi a rotelle? A che cosa sono serviti? Vogliamo invece parlare di programmi scolastici e del fatto che abbiamo pochi laureati, pochi tecnici, che metà delle imprese del Nord non riesce a trovare profili italiani all’altezza? Ecco un’altra verità che non si dice: noi non siamo un Paese aggredito dagli immigrati, ma un Paese in declino, che si sta svuotando. Nel 2021 avremo meno di 400mila nati, non era mai successo dall’Unità d’Italia».

Molte le cose che non ci diciamo, eppure in Italia si parla tanto, tantissimo. Spesso facendo affermazioni inesatte con la massima disinvoltura. A partire dal settore economico e finanziario: «Sì, la produttività è scambiata per cottimo e sfruttamento dei lavoratori, e invece è il principale problema dell’Italia perché non cresce da 25 anni – spiega de Bortoli, che è stato anche direttore del quotidiano economico Il Sole 24 Ore –. Produttività vuol dire capitale umano più preparato, maggiori investimenti tecnologici, più valore aggiunto. Se cresce aumentano anche i salari e gli stipendi, ma di questo non si parla. Lasciamo poi perdere l’idea che il debito non si debba restituire, perché siamo nello psicodramma. Stiamo fornendo materiale a tutti quelli che hanno pregiudizi su di noi per chiedersi: ma perché dobbiamo dare i soldi agli italiani? Negli altri Paesi europei non c’è questa discussione sui debiti che si cancellano. Evitiamo di mettere in pericolo i nostri risparmi, perché se fallisce lo Stato falliscono anche le famiglie, che pure sono molto più prudenti e meno cicale dello Stato».

Scienza e vanità. De Bortoli ha scritto un libro in cui ogni affermazione è corredata da numeri e fatti: si sentirà molto a disagio davanti ai continui battibecchi tra scienziati ridotti a opinionisti. «Viviamo in un Paese di scarsa cultura scientifica, con una forte tendenza no vax e un’avversione alle industrie farmaceutiche, alle quali pure sono aggrappate le nostre vite. La pandemia ha riportato le persone competenti al centro dell’attenzione, peccato che spesso la vanità abbia prevalso e che le dispute non abbiano rafforzato il rispetto degli italiani per la scienza, la preparazione, la medicina avanzata».

Il giudizio dei giovani. Una previsione, o almeno una sensazione, sul futuro del nostro Paese? «La virtù migliore dell’Italia è la saggezza delle famiglie che sono poco indebitate e fanno sacrifici per i loro figli. Nell’emergenza siamo sempre stati in grado di dimostrare le nostre qualità, però oggi, se vogliamo evitare che il Paese scivoli in un declino inarrestabile, dobbiamo avere più attenzione per gli investimenti e il capitale umano e ricordarci che i programmi europei hanno alcune giuste condizioni: l’inclusione sociale, la digitalizzazione, la transizione energetica. Bisogna fare seriamente delle scelte, e vanno fatte secondo me da una struttura centrale, non condivise con Regioni, Province, Comuni... L’alternativa è tra accontentare le corporazioni o investire sulle generazioni future. Che non fanno lobby, ma votano andandosene dall’Italia. La sconfitta peggiore a cui possiamo essere esposti».

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