“Lettere e biglietti”, tutto di Goliarda Sapienza
La Nave di Teseo pubblica un’autobiografia inedita della scrittrice siciliana in cui emerge l’intimità dei dialoghi con le persone che più amava
25 aprile 2021
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Inutile negarlo: davanti a “Lettere e biglietti” di Goliarda Sapienza (La nave di Teseo, 432 pagine, 20 euro) ci si sente colpevoli. Colpevoli di entrare nella vita altrui e, in questo caso, per giunta di farlo avidamente; e di entravi, più che attraverso il buco di una serratura, come ha scritto in merito al libro Elena Santarelli qualche settimana fa su La Stampa, attraverso il sistema di lenti di un microscopio, che tutto ingigantisce e niente lascia di celato all’immaginazione. Eppure, lo diciamo ad almeno parziale scusante, la figura della Sapienza è a tal punto magnetica che chi si provasse a resisterle andrebbe incontro a sicuro insuccesso. Ci solleva poi un poco dal sentimento di colpevolezza il curatore Angelo Pellegrino, che nella prefazione scrive: «Con “Lettere e biglietti” si conclude il mio lavoro quasi ventennale sulle opere di Goliarda Sapienza, portando a termine la promessa a lei fatta di pubblicare l’intero corpus».
Quel corpus, continua Pellegrino, che a partire dall’ormai celebre “L’arte della gioia” oggi «appartiene al patrimonio nazionale della nostra letteratura». Non si può che dargli ragione, sulla scorta di quel titolo e di altri come “Lettera aperta”, “Il filo di mezzogiorno” (riproposto a mezzo secolo dalla prima edizione sempre da La nave di Teseo) e i tanti postumi, tra cui “Io, Jean Gabin”, “Destino coatto”, il meraviglioso “Appuntamento a Positano”. Per mezzo degli scritti qui raccolti, di natura e lunghezza varie e indirizzati a una novantina di differenti destinatari, possiamo godere di un autoritratto vergato da una voce quanto più vicina possibile a quella della Goliarda Sapienza-persona. Non ci sono i filtri narrativi, cioè, dei romanzi autobiografici: ma mentre si dice questo, si deve riaffermare quanto già è noto, ovvero che la linea di separazione tra la persona e l’artista fu per la siciliana sempre estremamente esile. “Lettere e biglietti” ne è l’ennesima riprova. Eccola ora rivelare l’origine della sua perenne ricerca di sicurezza e di ordine («(…) mi è fisicamente impossibile aspettare qualcuno a cui voglio bene e che ritarda. Questo (...) mi riporta meccanicamente a un senso di instabilità e di provvisorietà del quale ho sempre, fin da bambina, sofferto, sia per l’eccezionalità della vita di mio padre, del suo carattere» sia per quella stabilità «che non ho mai avuto in famiglia»), ora indirizzarsi così al poeta Attilio Bertolucci, in una commovente missiva di fine anni Settanta in cui accenna alla «maledetta-benedetta legge dei ruoli»: «tu per me sei il padre dello scrivere, il padre – come ti ho detto – che con mano sicura m’ha tirato fuori dal nulla e mi ha indicato la strada (…)». Oppure, ancora: eccola rivolgersi con durezza a uno degli uomini per lei più importanti, il regista Maselli, reo secondo lei, come tanti altri, di aver «perso il contatto con la base» («non sei stato troppo, anche tu, lontano dalla vita, chiuso in un impegno di partito troppo anchilosato e ripetitivo?»), e poi rivendicare quel gesto per molti incomprensibile, il furto in casa di un’amica che la portò in carcere («(…) una rivolta a tutto il mio modo di vivere, che ormai mi opprimeva e soprattutto cominciava a scalfire il mio senso morale, estetico, politico (…)». Su tutti, indimenticabili i messaggi di metà 1975 a Pellegrino, presumiamo all’alba del loro amore: delle poesie. Ci si sente colpevoli, a leggerle, ma anche profondamente fortunati.
Quel corpus, continua Pellegrino, che a partire dall’ormai celebre “L’arte della gioia” oggi «appartiene al patrimonio nazionale della nostra letteratura». Non si può che dargli ragione, sulla scorta di quel titolo e di altri come “Lettera aperta”, “Il filo di mezzogiorno” (riproposto a mezzo secolo dalla prima edizione sempre da La nave di Teseo) e i tanti postumi, tra cui “Io, Jean Gabin”, “Destino coatto”, il meraviglioso “Appuntamento a Positano”. Per mezzo degli scritti qui raccolti, di natura e lunghezza varie e indirizzati a una novantina di differenti destinatari, possiamo godere di un autoritratto vergato da una voce quanto più vicina possibile a quella della Goliarda Sapienza-persona. Non ci sono i filtri narrativi, cioè, dei romanzi autobiografici: ma mentre si dice questo, si deve riaffermare quanto già è noto, ovvero che la linea di separazione tra la persona e l’artista fu per la siciliana sempre estremamente esile. “Lettere e biglietti” ne è l’ennesima riprova. Eccola ora rivelare l’origine della sua perenne ricerca di sicurezza e di ordine («(…) mi è fisicamente impossibile aspettare qualcuno a cui voglio bene e che ritarda. Questo (...) mi riporta meccanicamente a un senso di instabilità e di provvisorietà del quale ho sempre, fin da bambina, sofferto, sia per l’eccezionalità della vita di mio padre, del suo carattere» sia per quella stabilità «che non ho mai avuto in famiglia»), ora indirizzarsi così al poeta Attilio Bertolucci, in una commovente missiva di fine anni Settanta in cui accenna alla «maledetta-benedetta legge dei ruoli»: «tu per me sei il padre dello scrivere, il padre – come ti ho detto – che con mano sicura m’ha tirato fuori dal nulla e mi ha indicato la strada (…)». Oppure, ancora: eccola rivolgersi con durezza a uno degli uomini per lei più importanti, il regista Maselli, reo secondo lei, come tanti altri, di aver «perso il contatto con la base» («non sei stato troppo, anche tu, lontano dalla vita, chiuso in un impegno di partito troppo anchilosato e ripetitivo?»), e poi rivendicare quel gesto per molti incomprensibile, il furto in casa di un’amica che la portò in carcere («(…) una rivolta a tutto il mio modo di vivere, che ormai mi opprimeva e soprattutto cominciava a scalfire il mio senso morale, estetico, politico (…)». Su tutti, indimenticabili i messaggi di metà 1975 a Pellegrino, presumiamo all’alba del loro amore: delle poesie. Ci si sente colpevoli, a leggerle, ma anche profondamente fortunati.