La Nuova Sardegna

 

Massimo Popolizio: «L’Eneide di Virgilio come una serie tv di duemila anni fa»

Alessandro Pirina
Massimo Popolizio: «L’Eneide di Virgilio come una serie tv di duemila anni fa»

Il grande attore a Nora con "La caduta di Troia" parla di letteratura, cinema, teatro e televisione

27 luglio 2021
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La sua voce inconfondibile, possente, vibrante è una delle più belle del teatro e del cinema italiano. E ora il pubblico sardo avrà l’opportunità di ascoltarla dal vivo. La grande occasione si presenterà giovedì a Nora, quando Massimo Popolizio, ospite della Notte dei poeti targata Cedac, metterà in scena “La caduta di Troia”, tratto dal secondo libro dell’Eneide, con le musiche di Stefano Saletti eseguite insieme a Barbara Eramo e Pejman Tadayon. Più che un recital una vera e propria opera.

Popolizio, cosa l’ha convinta ad affidarsi a un classico della letteratura?

«Potrei dirle un sacco di balle come fanno molti miei colleghi, ma la verità è che questo è lavoro. Viviamo un momento tragico anche dal punto di vista produttivo e già riuscire a spostarsi in quattro è una cosa enorme. E comunque riportare in scena il cavallo di Troia non mi sembra una cosa così lontana dall’oggi».

Possiamo dire che l’Eneide sia un poema attuale?

«In qualche modo sì. Mi vengono in mente le città distrutte della Siria, della Libia. Enea esule costretto a lasciare la sua città con il padre sulle spalle è un’immagine che potrebbe essere di oggi. La contemporaneità dei classici è molto più forte della drammaturgia contemporanea. Oggi siamo tutti pazzi per Netflix, Sky. Ebbene Virgilio è uno sceneggiatore ante litteram e l’Eneide è un grande serial in cui c’è di tutto: amore, guerra, rapporto con la madre, con la spiritualità. È un grande affresco».

Nella presentazione dello spettacolo lei dice: «con le parole cercherò di fare vedere quello che c’è scritto».

«Confermo, noi faremo vedere quello che succede attraverso la voce e il suono. Sarà come entrare dentro un film e io sono la macchina da presa. I musicisti non sono semplice accompagnamento, ma un contrappunto. Mi piace definire questo spettacolo un’operina».

La sua voce ha grande successo anche su Radio 3 dove legge i grandi romanzi.

«Non solo alla radio, io faccio anche audiolibri. Ho appena finito di registrare “All’ombra delle fanciulle in fiore” di Proust: 537 pagine integrali, 18 turni di 4 ore l’uno. Non tutto però si può portare sul palcoscenico. Alcuni libri sono intimi, restano tra te e la pagina. Ma ci sono altre letterature - come l’Eneide - che se le leggi a voce alta vedi cose che da solo non riuscivi a vedere».

A scuola amava i poemi?

«Non avevo molta dimestichezza con la letteratura, ma poi ho avuto la grande fortuna di fare questo lavoro da subito in serie A. E questo mi costringe a non smettere mai di studiare».

Accademia Silvio D’Amico, poi il debutto con Ronconi: si è sentito subito appagato?

«Il mio pensiero non era dove fossi arrivato ma cosa stavo facendo. Mi trovavo in scena con Mariangela Melato o Annamaria Guarnieri ed ero concentrato a fare le cose per bene. Non avevo il tempo per pensare ad altro. Mi rendo conto adesso di quello che facevo allora».

Per il successo al cinema ha dovuto attendere.

«È arrivato più tardi, perché - malgrado fossi più carino di oggi - non avevo capito il meccanismo, avevo paura della macchina da presa. Il cinema l’ho imparato guardando gli altri attori».

E la tv?

«Per Montalbano eravamo in tre in lizza. Hanno preso Luca (Zingaretti, ndr), mio compagno di accademia. Se avessero scelto me avrei fatto un’altra strada».

In “Era d’estate” interpretava Falcone: che esperienza sono state quelle settimane all’Asinara?

«L’Asinara non è un luogo di gioia, è sempre stata un posto di dolore, ma circondata da una luce pazzesca. Abbiamo girato in autunno, c’eravamo solo noi. Il telefono prendeva solo sotto un albero, niente computer, avevo una stanzetta nella foresteria. Ci portavamo degli Oro Saiwa e facevamo il caffè col bollitore. In quel periodo ho capito che nella vita si può fare a meno di tutto».

È stato poi Mussolini in “Sono tornato”, un film che non è molto distante da quanto sta accadendo in Italia, dove assistiamo a un revisionismo fino a qualche anno fa impensabile.

«Era un remake di un film tedesco su Hitler. Fare il Führer era più facile, lui è veramente il Male. Mussolini invece rischiava di trasformarsi in burletta e dunque io sapevo cosa non dovevo fare. Ma ricordo che quando con Frank Matano ci presentavamo di fronte alla gente, dopo un primo momento di sconcerto si rivolgevano a me non come Popolizio ma come possibile duce: perché non torni, c’è bisogno di te. Lo abbiamo girato prima delle ultime elezioni, il vento dell’antipolitica era già forte».

Dramma o commedia: quando si diverte di più?

«Nei film comici devo stare molto più in campana che in quelli drammatici. Non c’è comunque un ruolo che preferisco: a fare la differenza è la ciccia che il personaggio mi offre».

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