La Nuova Sardegna

Anni ’30. Il regime fascista zittisce la poesia in limba

di Salvatore Tola
La valigia del poeta improvvisatore tziu Cuccu
La valigia del poeta improvvisatore tziu Cuccu

Da Montanaru a Casu, da Agniru Canu a Poddighe: nella libertà dei versi l'aspirazione della Sardegna all'autonomia

16 dicembre 2021
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Tra i tanti interessi che Antonio Gramsci coltivava per tenersi vivo nelle carceri fasciste c’era anche la Sardegna: per la quale lo studio e l’indagine storica si alternavano alla nostalgia del ricordo. Lo testimonia la lettera che scrisse alla madre nell’ottobre del 1927. Dice che vorrebbe avere alcune opere importanti, come il «Viaggio» del Lamarmora e la «Storia» del Manno, che è convinto di aver lasciato a Ghilarza; ma la sua attenzione va anche alle espressioni della cultura popolare: chiede notizie dei “discendenti” del cantastorie girovago Giovanni Filippo Pirisi Pirino, vuole sapere quali sono i temi trattati sui palchi delle feste dai poeti improvvisatori, e si vanta di ricordare a memoria alcuni versi della famosa «Scomuniga» pronunciata dal parroco di Masullas vittima di un furto di bestiame.

Erano anni nei quali la cultura locale aveva ripreso vigore, secondo l’alternanza che si individua negli ultimi secoli della storia isolana. Ci sono periodi, ha osservato Manlio Brigaglia, in cui prevale la tendenza alla «nazionalizzazione uniformizzante», cioè a mettere da parte cultura e storia dell’isola per integrarsi meglio con quelle del paese dominante: era accaduto nella seconda metà dell’Ottocento, e poi fino alla partecipazione alla Grande Guerra, quando era sembrato preferibile seguire l’Italia nel processo risorgimentale e poi nella difesa della patria comune. Ma nel frattempo avevano iniziato a prendere corpo le aspirazioni all’autonomia, e quindi a dare risalto alla propria lingua, alle proprie tradizioni: si era entrati nella fase di segno opposto, quella della «coscientizzazione sardista», di cui si facevano interpreti prima il movimento combattentistico e poi il neonato Partito Sardo d’Azione.

L’attenzione andava alla lingua, la poesia, le memorie. Mentre si moltiplicavano le “gare” dei poeti estemporanei, come ben sapeva Gramsci, si spargeva la fama di alcuni autori che avevano accesso al libro, ai giornali: il desulese Antioco Casula “Montanaru”, che nel 1921 attirava l’attenzione con la raccolta di versi «Cantigos d’Ennargentu»; mentre Pietro Casu, il sacerdote parroco di Berchidda, smetteva di scrivere romanzi in italiano e si dava a tradurre nel suo sardo logudorese la «Divina Commedia», per pubblicarla nel 1929. Casu e Casula furono i vincitori di un concorso di poesia sarda indetto nel 1928 dal quotidiano sassarese “L’Isola” (“La Nuova” era stata messa a tacere due anni prima); e qui incontrarono Salvator Ruju, che del nuovo quotidiano curava la pagina culturale; e che a sua volta iniziava a impiegare la lingua materna, il sassarese, per poesie che firmava con lo pseudonimo “Agniru Canu”. Nel frattempo Salvatore Poddighe aveva finito di pubblicare a Iglesias il poemetto «Sa Mundana Cummedia», anticonformista e polemico, che Michelangelo Pira avrebbe paragonato al «Manifesto» di Marx ed Engels.

Ma fu ben presto chiaro che queste opere non andavano a genio al regime, che la «nazionalizzazione uniformizzante » non solo la stimolava, ma la imponeva con la forza. I vescovi sardi, che sin dal 1924 avevano iniziato a tuonare contro i poeti improvvisatori, piuttosto liberi di linguaggio, nel 1931 avrebbero trovato “sponda” in un testo unico emanato dal Governo, e le gare sarebbero state sospese. Poco tempo dopo Montanaru avrebbe dovuto ingaggiare una discussione e giustificarsi con Gino Anchisi, autorevole funzionario fascista che gli suggeriva di abbandonare il sardo par passare all’italiano. E nel 1935 Salvatore Poddighe si sarebbe visto negare dal questore di Cagliari il permesso di far uscire una nuova edizione della «Mundana» perché incitava «all’odio di classe e al vilipendio della religione e dei suoi ministri».

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