La Nuova Sardegna

L'intervista

Matteo Porru torna in libreria: «Scrivo per spalare la neve dal cuore dei miei lettori»

di Gabriella Grimaldi
Matteo Porru torna in libreria: «Scrivo per spalare la neve dal cuore dei miei lettori»

Il racconto di Elia descrive il potere di far riemergere i ricordi

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La pioggia fa rumore, la grandine ne fa di più, il vento ulula a volte, anche l’aria, il mare e la terra hanno un suono. La neve no. La neve arriva dall’alto, anche in fiocchi enormi, si posa sull’erba, sui campi, sulle strade, sui tetti, sulle foglie, sulle automobili e copre tutto nel più assoluto silenzio. Un silenzio che nasconde qualcosa, si posa dentro le persone a celare una sofferenza che prima o poi verrà fuori e ci costringerà a fare i conti con noi stessi.

Un’osservazione profonda, per certi versi inquietante, è alla base del nuovo romanzo di Matteo Porru, classe 2001, cagliaritano, vincitore ad appena 18 anni del Campiello giovani. Un talento riconosciuto a livello internazionale che oggi sbarca nella blasonata collana Garzanti Narratori Moderni. Una scommessa per la storica casa editrice, un motivo di orgoglio e di entusiasmo per il giovane autore già emozionato all’idea che da oggi il suo nuovo titolo “Il dolore crea l’inverno” sarà in bella mostra nelle librerie di tutta Italia.

Perché proprio la neve per simboleggiare la sofferenza dell’anima?
«Questa storia della neve risale a quando ero alle medie. Durante una lezione sulla Divina Commedia e in particolare sulle vicende del conte Ugolino, scoprii che in fondo all’Inferno non c’erano le fiamme ma c’era freddo, gelo. Rimasi sconvolto ed è da allora che mi girava in testa quest’idea della neve che copre i nostri ricordi, qualcosa che li copre come per cancellarli. E invece la memoria è importante. Certo, ricordare può essere doloroso ma io dico che l’inverno che scaturisce dal riportare alla memoria fatti scomodi tempra l’uomo. E lo aiuta a crescere».

Nel romanzo c’è qualche elemento autobiografico?
«No, direi proprio di no. Si tratta di un racconto che ho cominciato a scrivere nel 2017, sei anni fa. Nel frattempo ne ho scritto altri quattro ma questo romanzo ho sempre continuato a portarlo avanti in modo parallelo. Di mezzo c’è stato il Covid, ma ora era arrivato il momento giusto perché venisse pubblicato. Ed è successo».

Di che cosa parla “Il dolore porta l’inverno”?
«Protagonista è Elia Legasov, un uomo che è nato in un paese immaginario in Russia circondato dal bianco, e da lì non è mai andato via. Il suo lavoro è spalare la neve, liberare strade su cui nessuno camminerà. La neve è sua amica, fino a quando non lo tradisce. Finché non fa emergere qualcosa dalle sue profondità. Qualcosa che ha a che fare con la sua famiglia e che doveva restare sepolto».

Sembra intrigante, che cosa succede?
«Succede che in quel paesino sperduto arriva una spedizione incaricata da una grande azienda di cercare petrolio. Non voglio dire di più della trama. Succede però che da quel momento, nella mente di Elia si affollano ricordi che aveva soffocato. Parlano di un padre, scomparso tanti anni prima, e di una madre, partita per sempre. Ci sono parole dolci, gesti delicati ma anche duri come il ghiaccio. E dolorosi. Elia capisce allora che quello che si dice dei membri della sua famiglia è vero: la neve non li protegge, ma li tenta, li provoca, per vedere se sono capaci di dimenticare, perché tutti dimenticano, ma i Legasov ricordano, sempre. Ora è venuto il suo turno di ricordare il passato. Qualunque sia il prezzo».

Qual è il messaggio?
«Vorrei che i lettori di questo libro alla fine capissero quale potere c’è nel ricordare, nel rievocare fatti e circostanze che tendiamo a tenere soffocati per paura di soffrire. Tutti dovrebbero dire: posso ricordare, posso liberarmi dal peso della neve che copre ogni cosa con il silenzio».

Cinque libri in una manciata di anni poco più che adolescente. Che cosa significa scrivere?
«Io scrivo di continuo. È una necessità per alleggerirmi, raccontare è un’azione viscerale fatta per me e per gli altri. Una cosa che ho imparato è che nella letteratura abitano le vite degli altri, nelle quali possiamo sempre riconoscerci. Così sento la necessità di raccontare, perché raccontare rende umani. E io voglio fare la mia parte».

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