Matteo Porru: «La scrittura cura la solitudine e io volevo essere notato»
Lo scrittore si racconta fra dolori e passioni: «Soltanto comunicando si superano le difficoltà»
Nato nel 2001, vissuto tra Roma, Venezia e Cagliari, Matteo Porru appartiene a quella generazione di scrittori che non scrive per mestiere, ma per necessità vitale. Fin da bambino ha dovuto fare i conti con una grave malattia, un tumore dei tessuti molli e, più tardi, con il diabete, esperienze che avrebbero potuto chiuderlo al mondo e invece lo hanno spinto a raccontarlo. Già da piccolissimo si è manifestata la sua esigenza di scrivere e da lì è iniziata una corsa che lo ha portato a vincere premi, a pubblicare romanzi e saggi, a calcare palchi e a parlare in televisione. Oggi ha ventiquattro anni, vive a Novi Ligure con la sua compagna Sofia, e porta in giro la sua voce in mille forme: dalla narrativa allo spettacolo “Chiuso per ferie”, fino al volontariato con i ragazzi di Vela Blu. Per lui la parola resta l’unica vera bussola: «In principio era il verbo», dice, e da lì, effettivamente, non si scappa.
La scrittura è stata per lei un approdo, un modo per attraversare la malattia e il dolore. Come la vive oggi?
«Scrivere per me era doloroso e catartico, lo facevo per essere visto e ascoltato. Credevo che la scrittura servisse a salvarmi e la ringrazierò per tutta la vita, perché grazie ad essa ho conosciuto la felicità. Oggi è diverso: la scrittura non è più solo una necessità vitale, è diventata il modo per abbellire quello che ho, per accompagnarmi. È una compagna che sostiene tutto il resto».
Ora che dice di aver conosciuto la felicità cosa vede guardandosi indietro?
«Ogni tanto rivedo il documentario Rai che mi hanno dedicato e mi accorgo di quanto fossi un’altra persona. Allora avevo tanti ostacoli mentali, cercavo risposte affrontando la domanda al contrario: non “perché” ma “come”. In due anni è cambiato tutto. Oggi convivo con Sofia a Novi Ligure, che ho conosciuto a una mia presentazione: lei moderava, io parlavo. Cercavo qualcuno che mi vedesse, e in lei ho trovato la realizzazione che prima cercavo soltanto nella scrittura. Ho imparato a pesare tutto: il dolore fisico, la fragilità, ma anche l’amore che non avevo mai conosciuto così. Ho imparato che le cose belle si mostrano, di quelle brutte si parla».
E sul fronte professionale?
«Sto bene, sto facendo quello per cui sono nato: scrivo romanzi e saggi, lavoro con la Rai, ho iniziato a fare televisione e dopo il documentario l’azienda ha cominciato a credere in me, sono onorato di questo».
Lei non è nuovo nel piccolo schermo, ha conosciuto anche Maurizio Costanzo.
«È vero, sono stato ospite in programmi come “DiMartedì” e Costanzo mi invitò giovanissimo nel programma serale “S’è fatta notte”. Era una persona meravigliosa, ma non mi invitò perché scrivevo, ma perché secondo lui “avevo i sogni chiari”. E infatti mi disse: “Resta sempre così con i sogni chiari”. È un consiglio che mi accompagna e che mi porto sempre nel cuore».
Oltre alla scrittura e alla televisione fa tante altre cose.
«Diciamo che mi piace mettere tanta carne al fuoco, specialmente perché il fuoco ho imparato a gestirlo. Intanto porto in giro il mio spettacolo da autore, “Chiuso per festa”, che ha avuto ottimi riscontri nell’esordio a Roma. E poi c’è il volontariato: nella casa famiglia Vela Blu ho trovato ragazzi che, come me, hanno fame di essere visti. Mi piace tornare e da loro perché hanno impreziosito la mia esistenza».
In un’epoca dominata da Instagram un giovane scrittore come lei come si rapporta ai social?
«Io odio Instagram, sono un facebookiano, anche se ultimamente scrivo meno perché voglio dedicare più tempo alla vita reale. È sempre meglio un bacio che un commento sui social (ride, ndr)».
La parola resta comunque al centro del suo mondo.
«Per me tutto passa dalla parola. In principio era il verbo, e resta così. Il romanzo è la mia dimensione preferita perché non ha limiti né convenzioni. Amo sperimentare e capirmi attraverso le parole. In un’intervista Radio 24 dissi che non mi interessa “cambiare l’Italia”, ma raccontare il cambiamento».
E la musica che ruolo ha nella sua vita?
«Un ruolo importantissimo. Suono il pianoforte e in passato anche il violoncello, oggi compongo, invento melodie e ascolto musica di continuo. Ho composto anche la colonna sonora del mio documentario Rai. Nei viaggi in macchina con Sofia non manca mai: amo Brunori Sas, la canzone “Kurt Cobain” è la mia preferita, le ultime parole del testo direi che possono riassumere tutto: “vivere come sognare, ci si può riuscire spegnendo la luce e tornando a dormire”».
Oggi vive a Novi Ligure per amore di Sofia: come si intreccia questo sentimento con quello che la lega alla sua terra d’origine?
«L’isola per me è da sempre croce e delizia. Mi sento sardo non solo perché ho vissuto in Sardegna o perché lì ho costruito il mio linguaggio visivo e identitario. Mi sento sardo perché continuo a cercare, anche quando sono lontano per ovvie necessità, quei modelli e quei paradigmi di pensiero e di vita che ho imparato nell’isola. La domanda che mi accompagna non è se sono sardo, ma quanto riesco a esserlo in ogni luogo in cui vivo».