Il duo Pino e gli Anticorpi si racconta: dalle gag per i cuginetti alle serate nei club d’Italia fino al successo in tv e al cinema
Stefano e Michele Manca da trent’anni fanno ridere il pubblico: «All’inizio ci chiamarono in un locale di metallari perché pensavano fossimo una band metal. Nessuno rise»
Sassari Fare ridere per professione è già difficile, riuscirci per trent’anni è un’impresa. I fratelli Stefano e Michele Manca, che sul palco diventano Pino e gli Anticorpi, hanno iniziato negli anni Novanta partendo dai piccoli club negli scantinati sassaresi per costruirsi una carriera che li ha visti protagonisti nelle piazze di tutta Italia, in tv nei programmi cult della comicità, al cinema, a teatro e anche al festival di Sanremo. Sospinti e ispirati «dall’educazione materna ricevuta – racconta Stefano –. Nostra madre era bravissima a inventare momenti di intrattenimento. A noi veniva naturale, così, far ridere. Abbiamo cominciato a fare le gag per i nostri cuginetti, abbiamo continuato poi alle medie dove far ridere era anche una forma di difesa dal bullismo quasi istituzionalizzata, perché il bullo se lo facevi ridere non ti menava».
Quando avete cominciato a fare sul serio?
«C’è stato un periodo con l’Azione Cattolica, poi l’esperienza nei villaggi turistici nella penisola. A un certo punto sono arrivate le serate nei circoli e nei club. Le chiamavano “serate di cabaret”, che però sono un’altra cosa: io mi sono sentito sempre un comico».
Com’era l’accoglienza del pubblico?
«C’è da dire che a 19 anni per la prima volta sono andato a vivere fuori dalla Sardegna, a Milano, frequentavo i club e ho visto cose all’epoca sconosciute. Quei concetti li abbiamo trasferiti nelle esibizioni a Sassari e in Sardegna, con un trend strepitoso. Abbiamo anche capito che dovevamo adattare la comunicazione alle circostanze».
Per esempio?
«Nei club, appunto, funzionavamo bene. Quando abbiamo cominciato con le piazze ci siamo resi conto che dovevamo cambiare qualcosa, nelle prime due-tre serate non ci capivano. Teniamo conto che i comici che qui andavano per la maggiore erano legati al contesto sardo, c’erano Benito Urgu e Giuseppe Masia. I nostri spettacoli erano più per un pubblico nazionale, del resto venivamo da Sassari e quindi da un contesto differente, molto cittadino».
A un certo punto avete cominciato a uscire dalla città e poi dall’isola.
«La novità stava nel fatto che cominciava a prendere piede uno spettacolo non musicale. Da Sassari abbiamo ricevuto richieste da Porto Torres e Alghero, poi Olbia, quindi Oristano. Dove abbiamo vissuto un’esperienza assurda».
Del tipo?
«Ci assoldarono pensando che fossimo un gruppo heavy metal. Quando arrivammo sul posto il padrone ci chiese: “Dove sono gli strumenti?”. Poi ci disse che il nome “Pino e gli Anticorpi” lo aveva portato a credere che fossimo un gruppo rock. Così portammo in scena uno spettacolo comico in un club frequentato da metallari».
E la gente rise?
«Assolutamente no. Anche quella fu una lezione: se non ti esibisci davanti a una platea predisposta a ridere, la serata va male».
I primi tour fuori dall’isola?
«Anche in quel caso ci volle un po’ di tempo per adattare la comunicazione. Cominciammo a Milano e non rideva nessuno, in Puglia ridevano tutti. Finimmo con la consapevolezza che anche da perfetti sconosciuti si poteva avere successo. Lo sdoganamento definitivo fu in tv, con Colorado Cafè. Una deflagrazione che arrivò anche in Sardegna, ci ha condizionato in positivo perché sembra sempre che ci sia bisogno di un “bollino” che certifichi il successo».
Qualche personaggio locale comunque lo avete portato sul palco: i tossicodipendenti sassaresi o don Cabeccia, per esempio.
«Certamente, adesso c’è il signor Puddu. Lo stesso Pino la lavatrice è la classica macchietta sassarese del perditempo che vive di espedienti. In ogni caso si tratta di personaggi che hanno un registro comunicativo universale, sono piaciuti perché anche da altre parti hanno i tossicodipendenti in città, o un prete ubriacone. E lo stesso Pino, che peraltro è costruito come un clown, ricalca un modo di essere dei giovani che trovi dappertutto. Abbiamo fatto diventare globale il locale, d’altronde l’Italia, tolte Roma e Milano, è un mondo fatto di realtà provinciali».
Ha vissuto a lungo fuori dalla Sardegna, com’era il rapporto con l’isola?
«Come sempre quando c’è di mezzo il mare. Da altre parti se cambi regione fai 300 chilometri ed è un cartello ad avvisarti che hai cambiato regione, i sardi sanno che di mezzo c’è il mare. La Sardegna resta diversa e speciale, già quando esci dall’aereo capisci che stai respirando un’aria diversa. Magari quando vivi fuori a quell’aria non pensi, ma quando torni la senti subito».
Con Michele siete fratelli e avete anche un rapporto di lavoro, non è comune.
«Un rapporto saldo, siamo anche soci in affari. Lo abbiamo sempre visto come un vantaggio: dici tutto senza filtri e l’altro se lo tiene. Siamo cresciuti insieme, lui ha tre anni meno di me ma mia madre me lo “affibbiava”. Nel senso che quando uscivo coi miei amici mi diceva “portati tuo fratello”, così per un periodo Michele era con me praticamente h24. Abbiamo sviluppato anche una certa complicità, nostro padre era severo e ci coprivamo a vicenda. E questo ce lo portiamo sul palco in maniera invisibile, basta uno sguardo o un sopracciglio alzato per dirsi delle cose che gli spettatori non colgono. Se litighiamo? Ovviamente sì, siamo fratelli. Litighiamo, ci diciamo tutto e poi non cambia nulla».
Alla fine è tornato a casa, a Sassari. «Volevo stare più vicino agli affetti. D’altronde viaggiamo molto e prendere un aereo da qui o da un’altra parte è indifferente. Sono diventato un fiero abitante del centro storico e mi trovo benissimo. Esco a piedi, saluto le persone, mi fermo a parlare coi bottegai. Sassari ti permette di vivere senza essere stritolato, anche a livello di prezzi che sono aumentati ma non come da altre parti, puoi permetterti una cena in ristorante o di girare in auto senza impazzire per il traffico, hai il mare a un passo. Una dimensione ideale e quando parlo con gli amici di Cagliari scopro che quasi te la raccontano meglio di noi sassaresi».
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