La Nuova Sardegna

Oristano

Oristano, 40 anni fa Pietro Riccio fu rapito e scomparve per sempre: il racconto della figlia

di Enrico Carta
L'avvocato Pietro Riccio
L'avvocato Pietro Riccio

Il 14 novembre del 1975 il sequestro dell'avvocato di origine sedilese, ex sindaco, deputato della Dc: morì durante la prigionia, i resti furono ritrovati nel 1997

13 novembre 2015
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ORISTANO. Generalmente, chi ha avuto a che fare con un lutto, fissa quell’istante quasi come si fa per le farfalle da collezione. Usa lo spillo della memoria per bloccare il momento, il giorno, l’ora, a volte il minuto in cui la morte è diventata ben più di un concetto astratto. Questo non vale per tutti. C’è chi mai ha avuto l’opportunità di sapere con certezza il giorno esatto in cui il proprio caro se n’è andato. Succedeva ai soldati in terre lontane e succedeva, vicino alle nostre case, negli anni da incubo dei rapimenti di persona, alcuni dei quali conclusi senza il rientro dell’ostaggio a casa.

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E allora, in un miscuglio terribile di date, il giorno del sequestro quasi ruba il posto a quello in cui la morte è arrivata, tanto che persino negli archivi dei giornali, il triste anniversario da ricordare diventa quello del giorno in cui alcuni uomini si presero l’ostaggio. Quarant’anni fa, il 14 novembre del 1975, quegli uomini si presero Pietro Riccio, l’avvocato oristanese di origine sedilese, l’uomo della Democrazia Cristiana che del capoluogo era stato sindaco e che dalla città di Eleonora aveva preso il volo per la Camera dei deputati dopo il successo elettorale nel 1972.

La sua vita da parlamentare fu breve. La sua vita in genere, da quel momento, fu breve: poco più di due anni, perché poi, al termine di un comizio elettorale ad Asuni la sua auto fu bloccata nella strada del rientro verso Oristano. Pietro Riccio divenne prima un ostaggio, per il quale furono pagati 400 milioni di lire di riscatto – l’equivalente potrebbe essere oggi una cifra attorno ai quattro milioni di euro – senza che si riuscisse a ottenerne la liberazione. Poi divenne quasi un’ombra di flebile speranza per i familiari che aspettavano ormai invano. Infine divenne un morto. Era il 2 dicembre del 1997 quando i resti del suo corpo vennero ritrovati, ma per seppellirlo si dovette attendere il 16 maggio del 1998, dopo che l’esame del dna diede la conferma e quando dal rapimento erano passati 23 anni.

Altri 17 sono trascorsi dal momento dell’addio e dalla sepoltura vera e giusta, dopo quella indegna sotto un mucchio di terra in una grotta del canalone Sa Crabarissa nel territorio di Austis. Ma in quarant’anni, a differenza di quel che avviene per i lutti “normali” i suoi cari non riescono a usare quella spilla che fissi l’istante dell’addio, perché quell’opportunità non l’hanno mai avuta.

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Stefania Riccio, uno dei cinque figli, il 14 novembre del 1975 era appena diciottenne e il suo fotogramma ultimo con il padre è sulle scale all’uscita di casa. L’avvocato si volta verso di lei e fa: «Che dici, tengo questa cravatta?», prima di essere inghiottito dall’abisso. «Da allora, ogni giorno è come il primo – racconta Stefania Riccio, anche a nome degli altri fratelli –. Nulla cambia col tempo che passa, perché quella dei sequestrati che mai hanno fatto rientro a casa non è una morte come le altre. Tutte sono dolorose. Alcune sono strazianti, ma questa è, in una parola, una morte diversa. Non la si metabolizza».

Succede perché i giorni, poi i mesi, poi gli anni passano senza una risposta. Anche la morte, nella sua brutalità, è una certezza per chi resta, ma non in casi come questi «E infatti per anni, sino a che non è stato ritrovato il corpo di mio padre, non ho voluto che in casa mia entrasse un solo fiore – prosegue Stefania Riccio –. E poi c’è un ulteriore aspetto: la gente parla dell’episodio come se fosse un avvenimento storico, quasi una pagina da libro di storia. Non ci si rende conto che per noi è come se tutto ciò fosse accaduto ieri e non quarant’anni fa».

Viste dal di fuori le vite degli altri appaiono sempre più banali di quel che sono. «Ancora oggi non riusciamo a parlarne tra di noi in famiglia – dice –, né so dire quando abbiamo capito che non l’avremmo più avuto con noi». Non i figli, non la vedova, non una qualsiasi altra persona teneva con sé lo spillo per fissare quel momento. Il momento.

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