La Nuova Sardegna

Grande Guerra, donne mobilitate e dimenticate

Eugenia Tognotti
Grande Guerra, donne mobilitate e dimenticate

Dal pubblico al privato furono loro a colmare i vuoti nell'Italia militarizzata. Per le donne il conflitto non fu solo lutto, ansia, sofferenza per i cari lontani

08 novembre 2018
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Nel variegato panorama delle iniziative per commemorare la Grande guerra, cerimonie, mostre, rievocazioni, spettacoli hanno offerto interessanti chiavi di lettura e una molteplicità di spunti. Vale la pena di soffermarsi su un aspetto che resta sempre in sottofondo: la "mobilitazione" femminile e lo sconvolgimento provocato da quella guerra nei ruoli di genere, nella "gerarchia" fra uomini e donne. Perché quel conflitto non fu - com'è sempre stato nella storia, solo una "cosa da uomini", con ruoli fissi: da una parte i combattenti, al fronte, a difesa della Patria; dall'altra le donne "angeli custodi del focolare". Col protrarsi del sanguinoso conflitto, infatti, l'esigenza di assicurare la produzione di beni e servizi per le esigenze belliche, rende necessaria la presenza di figlie, sorelle, mogli, madri in spazi e con responsabilità pubbliche. Sono le donne a colmare i vuoti, in Italia, un Paese particolarmente militarizzato, con una percentuale di mobilitati nella popolazione (16%), di gran lunga superiore a quella di Germania, Francia, Inghilterra.

Dallo spazio privato a quello pubblico, in contesti lavorativi maschili, nell'industria, negli uffici, nelle banche, negli ospedali, nelle fabbriche di armi, nelle manifatture tessili, nelle tipografie, nelle aziende telefoniche. Nelle città spazzano le strade o lavorano nei magazzini, distribuiscono la posta, preparano pacchi e confezionano maschere antigas, calzature e uniformi per i soldati. Nelle campagne accudiscono il bestiame, utilizzano le macchine agricole, si occupano di questioni burocratico-amministrative e di commercio di prodotti agricoli. Le foto delle donne che escono in bicicletta dai cancelli delle fabbriche compaiono sui giornali e cambiano l'immaginario dei contemporanei.

È lo scrittore Ugo Ojetti a darcene un'idea descrivendo «la fiumana di donne che penetra, gorgogliando e frusciando, nei luoghi degli uomini: campi, fabbriche. Oggi lavorano pel bene di tutti tante donne quante mai ne avevamo vedute, in lavori da uomini». A Cagliari e a Sassari, nella terra dei "gloriosi fanti della Brigata Sassari", citati sui bollettini di guerra, le donne organizzano comitati che si occupano di assistenza alla popolazione, raccolta di fondi per la guerra, lavorazione di bende e vestiario per i militari, soccorso ai feriti. Ovunque, ai comitati locali, enti semi-pubblici, le autorità attribuiscono funzioni diverse che configurano ruoli di protagoniste nella vita quotidiana del fronte interno. Anche il ruolo femminile tradizionale di accudimento e di cura di masse di feriti, mutilati, moribondi acquista un nuovo significato e viene percepito come un "allargamento" dello stesso all'intero corpo della Nazione in guerra. Certo le donne che restano a casa affrontano una vita di privazioni e sacrifici, vivono esperienze nuove, dolorose e traumatiche, come quella del lutto e della lontananza da mariti, fratelli, figli. I lunghi anni di guerra sono un lungo, infinito periodo di solitudine, di tormentosa sospensione. Come rivelano le corrispondenze private, l'attesa di notizie dal fronte è snervante, logorante. E così il distacco. Si può citare, a proposito, la straziante scena raccontata da Emilio Lussu in "Un anno sull'altopiano". Al momento della partenza dopo una breve licenza, sorprende la crisi di sconforto e di disperazione della madre: "Al centro della sala, accanto a una sedia rovesciata, la mamma era accasciata sul pavimento, in singhiozzi. Io la raccolsi, l'aiutai a sollevarsi. Ma non si reggeva più da sola, tanto, in pochi istanti, si era disfatta. Tentai di dirle parole di conforto, ma si struggeva in lacrime".

Si tratta di un tema da approfondire. Ma la guerra non ha rappresentato per le donne solo lutto, sofferenza, ansia per i cari lontani. E non è stata solo una parentesi prima del ritorno alla "normalità" del dopoguerra con la dominante "mitologia della madre sacrificale". È stata anche "una grande officina". Ha rotto l'idea dell'incompatibilità fra donne e sfera pubblica. Ha cambiato la moda femminile. Ha segnato, comunque, una tappa, nell'accidentato percorso - interrotto dal fascismo - verso l'emancipazione.

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