La Nuova Sardegna

L'intervista

Dori Ghezzi: «Quando Fabrizio ci ha lasciati ho capito che la Sardegna è per sempre»

di Alessandro Pirina
Dori Ghezzi: «Quando Fabrizio ci ha lasciati ho capito che la Sardegna è per sempre»

A Tempio racconterà il suo De André in piazza Faber: «Il sequestro non è stato il periodo più difficile, ho vissuto momenti peggiori»

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Del rapporto tra Dori Ghezzi, Fabrizio De André e la Sardegna sono stati versati fiumi d’inchiostro. D’altro canto, quella tra loro e l’isola è una storia unica, un legame profondo, rafforzato da un evento drammatico come il sequestro, che non si è interrotto neanche con la morte di Faber. Ne sono la dimostrazione il tributo firmato Time in jazz che ogni agosto viene fatto all’Agnata - quest’anno con una superlativa Paola Turci che si è anche cimentata in gallurese in “Monti di mola” - e il Faber festival che si svolge da venti estati a Tempio e che oggi vedrà come ospite proprio Dori Ghezzi che, in dialogo con Flavio Soriga, racconterà il suo Fabrizio. Appuntamento alle 18.30, ovviamente in piazza Faber.

Dori, oggi sarà a Tempio a parlare di Fabrizio con Flavio Soriga. Quando ha scoperto la Sardegna pensava che sarebbe stata per sempre?

«Quando la vivi non puoi immaginare che sarà per sempre. Me ne sono resa conto nel momento in cui Fabrizio ci ha lasciati. Vedendo la reazione del pubblico, osservando tutto quello che ci accadeva intorno, ho capito che sarebbe stato per sempre».

Tra l’altro la sua prima volta nell’isola fu proprio a Tempio. Prima di Fabrizio.

«Sì, conoscevo Tempio perché avevo già cantato al Teatro Giordo. Il destino aveva già deciso. Era stato uno dei primi concerti che facevo. In Sardegna furono tre, uno anche vicino a Sassari. Ma quello che mi rimase più impresso fu proprio quello di Tempio. Forse perché era Carnevale e la gente aveva voglia di divertirsi. E spero con il “Casatschok” di essere riuscita a farli divertire».

Cinquant’anni dopo come definisce quella scelta di lasciare la città per la campagna gallurese?

«Lui genovese, io milanese, dovevamo scegliere tra Genova e Milano, ma avevamo voglia di tornare in campagna in cui già entrambi avevamo vissuto. Ma non villetta con giardino e orticello, proprio campagna. All’inizio avevamo cercato tra Milano e Genova ma le cifre erano proibitive. Fabrizio aveva già confidenza con la Sardegna, avendo una villa a Portobello. Un giorno confidò la sua intenzione all’autista tempiese che lo portava dall’aeroporto di Olbia, Mureddu, e lui gli rivelò che stavano vendendo una vallata di 800 ettari ai piedi del Limbara. “Vai a vederla”, gli disse. A quel punto Fabrizio mi ha coinvolta e abbiamo deciso di fare una scelta di questo tipo. Certo, non 800 ettari, ma 150 sono comunque un bell’appezzamento».

Lei e Fabrizio eravate inseriti nella comunità, anche i vostri amici sono diventati tempiesi…

«Siamo ancora in contatto, soprattutto con quelli del primo periodo. Franco Maciocco, Giuseppe Visicale, Filippo Mariotti, che è stato per anni il nostro fattore ed è ormai un nostro parente. E poi c’è Salvina Pinna, che oggi governa l’Agnata. Il padre Salvatore era uno degli amici più intimi di Fabrizio: è a lui che ha dedicato “Zirichiltaggia”, che parla di due fratelli che litigano contendendosi l’eredità».

Quando si parla di Fabrizio, Dori e la Sardegna non si può non affrontare il tema del sequestro. Sono passati decenni ormai, cosa prova quando ripensa a quei quattro mesi in mano ai banditi?

«Se non me ne parlano non ci penso. E anche se dovessi pensarci non lo considero il periodo più difficile della mia vita. L’ho detto anche in pubblico, ho vissuto momenti peggiori, proprio dal punto di vista delle relazioni umane».

Non crede che la scelta di non colpevolizzare i sardi, di scegliere di restare in Sardegna abbia rafforzato ulteriormente il vostro legame con l’isola?

«Assolutamente, vendicarsi e non perdonare non serve a nulla. Invece, in questo modo si ottengono anche dei risultati».

Fabrizio parlava il gallurese, lei ci ha mai provato?

«Lui riusciva a parlarlo, io no. Lo capisco, ma mi limito a qualche accenno vago».

Che effetto le ha fatto sentire Paola Turci cantare Monti di mola all’Agnata?

«È stato bellissimo. Paola ha avuto un grande coraggio. Anche le scelte delle canzoni sono abbastanza ardue. Io l’avevo tranquillizzata e lei ha osato. È venuta fuori una Paola che non si conosceva».

Anche quest’anno si è rinnovato il rito del Time in jazz all’Agnata. Cosa prova quando vede tutta quella gente che per un pomeriggio di agosto rinuncia a una giornata di mare per venire a rendere omaggio a Fabrizio a casa sua?

«Al di là del fatto che è una rassegna che ha successo ovunque Paolo Fresu la faccia, lui è un musicista straordinario. All’Agnata in più si uniscono diverse forze: c’è chi viene per la prima volta, chi lo vive come un appuntamento da non perdere. C’è grande amore e grande rispetto verso questo posto. Basta vedere come lo ritroviamo ogni volta dopo un concerto: per terra non viene lasciato nulla».

E oggi a Tempio in piazza Faber...

«Dobbiamo ringraziare Renzo Piano che ce l’ha regalata...».

... al Faber festival dove ritroverà Flavio Soriga.

«L’ho conosciuto a una delle prime edizioni del Time in jazz all’Agnata con Lella Costa e Gianmaria Testa. Quando ho letto il suo primo libro mi ha conquistata. Mi piace entrare in quel suo mondo sardo, tutta quella ironia per raccontare cose drammatiche. Che era un po’ il modo di scrivere di Fabrizio. Pensiamo a “Don Raffaè”. Non era certo una storia positiva, ma grazie all’ironia riusciva a essere più tagliente».

Oggi a Tempio ci sarà anche The Andre, che ha cantato e riscritto i più grandi successi di genere trap con la voce e la poetica di Fabrizio. Che effetto le fa?

«La sua non è mancanza di rispetto, tutt’altro. Se Fabrizio fosse nato due generazioni dopo magari sarebbe stato anche lui un trapper. D’altronde, lui è stato uno dei primi a usare un linguaggio di rottura. Ed è ancora amato perché i giovani lo sentono vicino. Ma oltre questo non dimentichiamo che The Andre ha anche cantato al Gran teatro di Milano tutta la Buona Novella con l’Orchestra Verdi».

Un’ultima domanda: secondo lei Fabrizio si sarebbe mai aspettato questo affetto del pubblico duraturo nel tempo, più forte della morte?

«No, però aveva la consapevolezza di essere amato dal pubblico, perché lui lo aveva sempre rispettato. Ci sono stati discografici che gli dicevano: questo album il pubblico non lo capirà mai. E Fabrizio rispondeva: il pubblico è più intelligente di quanto crediate. E aveva ragione lui. In quel modo il pubblico si è sentito rispettato. C’era un amore reciproco che è diventato questo affetto continuo che pochi artisti possono vantare. Uno di questi è Vasco che sta creando con il pubblico un tipo di rapporto unico. Come Fabrizio anche Vasco ha creato una famiglia. Non tutti ne sono capaci».

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