Roberta Bruzzone: «Il risultato del test del Dna su Natalino Mele potrebbe spiegare il perché sia stato graziato dal mostro di Firenze»
La criminologa torna nell’isola con due spettacoli: «Le ultime novità sul caso di Garlasco confermano che Stasi è colpevole»
Sassari In Sardegna ha trovato una casa e il suo mare, ma anche il luogo ideale da cui ripartire per raccontare le ombre dei rapporti umani. Con lo spettacolo Amami da morire, Roberta Bruzzone porta in scena la radiografia di un amore malato, trasformando la sua esperienza di criminologa in un viaggio teatrale che mostra come la passione possa diventare gabbia, manipolazione e annientamento. Sullo sfondo restano i grandi casi che hanno segnato l’Italia intera e, in parte, la sua carriera, dal delitto di Garlasco alla vicenda del Mostro di Firenze. Testimonianze di una ricerca della verità, che per la criminologa e psicologa forense non si ferma mai.
Roberta Bruzzone sarà il 23 agosto al Parco urbano di Capoterra (evento organizzato da Mister Wolf in collaborazione con Associazione Dreamwalk Sound), e il 30 per il festival “Florinas in giallo” con uno spettacolo che promette di scuotere il pubblico, accompagnandolo negli abissi emotivi che manipolano i meccanismi invisibili dell’amore.
Dottoressa Bruzzone, nel suo spettacolo parla di un amore che viene “ucciso”. Qual è il confine tra una crisi di coppia e una relazione realmente distruttiva?
«Il confine è decisamente netto e deciso. Una crisi di coppia presuppone uno scontro tra bisogni e prospettive diverse, ma c’è sempre una reciprocità che sfocia nel confronto. Nelle relazioni malevole, tipiche del narcisismo maligno, questo non esiste: i bisogni di uno vengono sistematicamente schiacciati dall’altro. Lì non si parla più di cristi, ma di annientamento».
Molte vittime non riescono a uscire dal legame tossico. Paura e senso di colpa le bloccano. Che consigli dà per spezzare il ciclo?
«Serve consapevolezza. Bisogna nominare il male, smascherarlo senza indulgenze, è uno degli obiettivi dello spettacolo, ed è quello che cerco di fare da sempre, è una missione per me. Occorre supporto psicologico e reti di protezione, ma il primo passo è riconoscere che non si tratta di amore, bensì di sopraffazione».
Quanto pesano gli schemi culturali nel restare intrappolati in questo genere di rapporti?
«Moltissimo, c’è una narrazione tossica che ci insegna a redimere il “cattivo ragazzo”. Ma non si redime chi trae nutrimento dal controllo. Alcuni di questi schemi sono figli di una matrice patriarcale. La buona notizia è che possono essere scardinati: tutto ciò che è nato può anche tramontare».
I social che ruolo giocano in queste dinamiche? Mi viene il mente il fenomeno degli incel...
«Un ruolo enorme, il fenomeno degli incel non va sottovalutato. Rappresentano una problematica evidente: scaricano sulle donne la responsabilità delle loro frustrazioni. I social network, con le loro community, amplificano questo odio. E il disagio, spesso psicologico, diventa un comburente».
Passando alla cronaca, lei ha sempre sostenuto che Alberto Stasi è il colpevole dell’omicidio di Chiara Poggi, le ultime novità sembrano darle ragione...
«Credo che questa indagine non stia facendo altro che confermare la colpevolezza di Stasi, e anche il fatto che Andrea Sempio non c’entri nulla. È stato grottesco dare per scontato alcune cose, direi poche idee ma molto confuse».
Si smonta anche l’ipotesi di un’altra persona sulla scena del delitto...
«Si sapeva da subito che la presenza del dna ignoto sulla garza del tampone orale effettuato a Chiara Poggi provenisse da una contaminazione involontaria con un’altra salma durante l’autopsia».
Quello di Garlasco è diventato un caso mediatico sin dall’inizio...
«Le gemelle Cappa, i genitori e il fratello di Chiara Poggi sono stati trucidati mediaticamente, sulla base di elementi che sono a dir poco flebili. Spero che prendano le giuste misure per tutelarsi, più di qualcuno dovrà rispondere di quello che ha scritto. Le faccio un esempio: l’Estathè di Alberto Stasi ritrovato a casa di Chiara Poggi. Fino a poco tempo fa si diceva che l’assassino – o gli assassini, come si paventava– avrebbe fatto colazione con la vittima, poi è venuto fuori che il dna era proprio di Stasi e la cosa si è sgonfiata. È una vicenda che deve creare un precedente».
Parlando invece del caso del mostro di Firenze, i giorni scorsi è emerso che Natalino Mele non sarebbe figlio di Stefano Mele ma di Giovanni Vinci, cosa ne pensa?
«È sicuramente uno scenario interessante. Per adesso è un dato che potrebbe avere una rilevanza investigativa e potrebbe anche spiegare il perché quel bambino sia stato risparmiato dal mostro di Firenze».
Torna nell’isola con due spettacoli, ormai è di casa qui...
«Beh io mi sento sarda, ho comprato casa qui, adoro il mare! (ride, ndr)».