Luigi Pomata, lo chef del tonno di U Paize: «Devo tutto alla mia Carloforte»
Dalla famiglia, da cui ha imparato tanto, all’esperienza in giro per il mondo lo chef si racconta: «Sono rientrato per restituire qualcosa alla mia terra»
Carloforte Figlio d’arte, ma prima ancora nipote curioso e intraprendente, Luigi Pomata è oggi uno dei volti più apprezzati della cucina contemporanea. Nato a Carbonia cinquantadue anni fa, mette le radici nella sua Carloforte, dove suo padre Nicolo, morto l’anno scorso, era lo chef dello storico ristorante “Da Nicolo”, oggi gestito dal fratello Antonello. Una carriera iniziata prestissimo con i primi esperimenti davanti al frigorifero da ragazzino, per poi consolidare le sue conoscenze nei fornelli di mezzo mondo. Infine il ritorno a casa, in Sardegna, per restituire alla sua terra ciò che ha imparato. Ma è anche un divulgatore appassionato, con i suoi celebri occhiali colorati ha conquistato anche il grande pubblico televisivo partecipando a “La Prova del Cuoco”. Conosciuto come da molti come il “re del tonno”, oggi il suo locale di viale Regina Margherita a Cagliari è un punto di riferimento per tutta la cucina sarda.
Chef, da dove nasce il suo legame con la cucina?
«Diciamo dalla curiosità, e da una certa intraprendenza che ho avuto sin da piccolo. I miei genitori lavoravano tanto e io passavo molto tempo con i nonni. Si alzavano presto per raccogliere pomodori e zucchine: li seguivo nei campi, nelle serre, e poi li accompagnavo quando portavano le verdure nei mercati o nei ristoranti. Mi affascinava quel mondo. Così è nata la scintilla». Ricorda un momento particolare in cui ha capito che sarebbe diventato cuoco?
«Alle scuole medie già mi mettevo a sfogliare i ricettari. Aprivo il frigo e cominciavo a cucinare. E poi, ogni volta che c’erano feste con gli amici, ai fornelli c’ero io. Era più forte di me. Ma oltre al Dna – che sicuramente ha il suo peso – è stato fondamentale lo spirito di osservazione, la voglia di imparare».
Che ruolo ha avuto la sua famiglia nella sua formazione?
«Non mi hanno mai imposto nulla. Mio padre mi ha detto: studia, esci, vai a farti le ossa fuori. Avevo voglia di confrontarmi con il mondo. Ho lavorato da Londra a New York. Ogni esperienza però mi ha dato qualcosa».
Per quale motivo è tornato in Sardegna? Necessità o sentiva la mancanza dell’isola?
«Mi ha fatto tornare il desiderio di restituire qualcosa alla mia terra. Anche se a New York mi sarei potuto fermare, sentivo che dovevo rientrare. Abbiamo tanto da dire anche noi, e la Sardegna è una terra incredibile per biodiversità, prodotti e tradizioni».
Che sapori porta con sé dall’infanzia?
«I sapori della domenica. Può sembrare un paradosso, ma noi che vivevamo di pesce tutti i giorni, la domenica mangiavamo carne. Ricordo i sughi delle cotture lente, le lumache dopo le prime piogge… sapori che ti restano dentro. E poi la mia Carloforte: un’isola nell’isola, dove la contaminazione è quasi genetica, sulla pelle della gente».
Lei parla spesso di “cucina di contaminazione”. Che cosa intende?
«La Sardegna, da Alghero a Oristano, è piena di contaminazioni. La nostra cucina è il risultato di tanti passaggi, incontri, influenze. Anche oggi, quando si parla di immigrazione, io dico: chi arriva porta anche esperienze, sapori e tecniche. L’ambizione e lo studio devono convivere con la capacità di ascoltare e accogliere».
Qual è il suo modo di intendere la ristorazione?
«Io apro casa mia ai miei ospiti. Non preparo un piatto: racconto un’esperienza. Il mio lavoro inizia dalla scelta dei fornitori, ma non sono un solista, mi piace lavorare di squadra. Ogni ingrediente, ogni persona che lavora, ha un ruolo ben preciso, un’orchestra».
Come è cambiata la ristorazione da quando esiste Masterchef?
«Luci e ombre, sicuramente la televisione ha dato dignità a questo mondo ma allo stesso tempo oggi tanti arrivano ai fornelli e sembrano già professori universitari. Con in mano due pinzette credono di saper come fare un piatto, senza conoscere le basi. La gavetta è fondamentale, i ragazzi validi ci sono, ma vanno aiutati a costruirsi davvero».
Suo figlio invece che strada ha scelto?
«Mio figlio di ventuno anni ha scelto questa strada, nonostante io abbia cercato di fargli cambiare idea. Si chiama Niccolò come mio padre, e io come mio nonno. Anche a mio figlio ho detto: prendi e parti fuori per studiare e contaminarti il più possibile. Sarebbe stato troppo semplice stare qui e lavorare come figlio del titolare (ride, ndr). Rappresenta la quarta generazione di cuochi nella mia famiglia».
Qual è stato il momento più emozionante della sua carriera?
«Tantissimi. Quando sono entrato a “La Prova del Cuoco”, ma anche quando ho rappresentato l’Italia al Bocuse d’Or: momenti che ti fanno capire perché fai questo mestiere. Io mi emoziono ancora quando vado a mangiare fuori, figurarsi quando cucino».
Lei è anche chiamato il “re del tonno”, una costante nei suoi piatti.
«Il tonno è un simbolo, una storia, un pezzo della nostra identità. A Carloforte ci ha sfamati d’inverno, quando non c’era altro. Il Girotonno, per esempio, nasce anche per questo: per crescere insieme, valorizzando il territorio. Infatti non sono geloso delle mie ricette, anzi, mi piace condividerle, soprattutto con i giovani».
Se non avesse fatto il cuoco?
«Avrei fatto il navigante. Ma alla fine, in un certo senso, lo sono comunque. Giro il mondo, incontro persone, porto con me storie. E mi diverto. Ed è proprio questo che mi emoziona di più: divertirmi facendo quello che amo».