La rete del narcotraffico: telefoni fantasma, squilli in codice, mai “fare nomi”, il sistema basato sul terrore - Le intercettazioni
I corrieri della droga avevano paura dei capi, in caso di errore nelle consegne le punizioni erano pesanti: «Mi bruciano la casa»
Sassari In fondo, tutto si reggeva sul silenzio e sulla paura. La rete del narcotraffico era invisibile: i telefoni fantasma, i codici del silenzio e gli ultimi anelli della catena, i pesci più piccoli, col perenne terrore di sbagliare, e di essere divorati dagli squali.
Il citofono. Nelle carte dell’ordinanza della Direzione distrettuale antimafia di Cagliari, i magistrati lo chiamano “sistema di comunicazioni criptate”. Gli indagati, invece, lo chiamavano “citofono”. Un telefono senza rubrica, senza nome, senza storia. Una scheda intestata a un pensionato ignaro, a una donna di Oristano che non l’aveva mai vista, a un codice fiscale pescato in rete. Era quella la voce della rete: numeri muti, attivi solo per un’ora, poi bruciati. Gian Paolo Locci, il regista di Bari Sardo, ne aveva almeno quattro. Uno lo usava per i contatti con Beniamino Marongiu, il suo uomo sull’isola; un altro per parlare con gli albanesi sulla Penisola. Quando qualcuno sbagliava numero, la risposta era sempre la stessa: «Non fare nomi! Non richiamare da questo. Questo è il citofono, non il telefono». Le intercettazioni - quelle che i carabinieri sono riusciti a catturare piazzando microspie dentro le auto e negli appartamenti in Ogliastra - mostrano un linguaggio tecnico, quasi burocratico: «Hai acceso la 34?», «Spegni la bianca prima di uscire», «La blu è solo per il mercoledì». Ogni colore era una scheda, ogni numero un canale. Il sistema era raffinato.
Le Sim “fantasma” venivano attivate online usando documenti veri ma di altri, spesso anziani o disoccupati che avevano venduto la propria identità per pochi euro. Poi le schede passavano di mano in mano, venivano tagliate, spostate da un telefono all’altro. I carabinieri del Nucleo operativo di Carbonia, per intercettarle, hanno dovuto duplicare i chip, clonare i codici Imei e infiltrarsi nei canali della logistica: microspie nascoste nei sedili, nei pacchetti di sigarette, nei vani portaoggetti. In una delle intercettazioni più nitide, Locci spiega la regola d’oro al suo interlocutore: «Mai usare il nome, mai dire “la roba”. Quando chiami, fai due squilli. Se ne fai tre, cambia tutto». E in un’altra, registrata dentro una Mercedes parcheggiata a Bari Sardo, un corriere confessa la sua paura: «Mi scordo qual è quello buono, poi mi frega la Finanza…». «Se ti frega la Finanza – risponde Locci, ridendo piano – non esiste che ti frega, perché questo numero non esiste».
Le microspie. Ma proprio lì, nel nulla digitale, gli investigatori hanno trovato le prove. Grazie a una microspia nascosta nel caricatore di una sigaretta elettronica, hanno captato i dialoghi di Locci con Efisio Spano e Rossano Agnese, gli uomini della logistica del Sud Sardegna. Lì si parlava di “accendere la linea del latte”, per dire “mandare il camion”, e di “chiudere la voce del mare”, per dire “interrompere il canale di Pisa”. Il “citofono” non serviva a parlare, ma a riconoscersi. Due squilli: “Sono io”. Un terzo squillo: “Non è sicuro”. Una chiamata vera: “Scappa”. Il terrore dei pesciolini. La paura resta impigliata nei dialoghi minori, nelle intercettazioni di chi sta in fondo alla catena. Quelli che “portano il sacchetto”, “scaricano la roba”, “stanno zitti se qualcuno sparisce”. Nelle carte dell’ordinanza della Direzione Distrettuale Antimafia di Cagliari ci sono frammenti di vite piccole, di uomini che pesano la merce e la paura con la stessa bilancia. Uno dice: «Se non scarico oggi mi bruciano la casa». Un altro risponde, con voce più bassa: «Questa volta mando mio cugino. Io ho la bambina piccola». Dentro la rete che lega Locci, Marongiu e i loro referenti isolani, c’è anche questa zona grigia, quella dei corrieri improvvisati, dei magazzinieri di campagna, dei mediatori locali che si spostano in scooter tra un bar e un altro, con una busta nella tasca interna del giubbotto. Il 3 aprile 2023, a Sant’Anna Arresi, uno di loro sbagliò tutto. Una consegna mancata, una partita evaporata, i soldi persi nel nulla. Fu prelevato con la forza, in pieno giorno, da un’auto scura senza targa. Nove ore di viaggio tra il Sulcis e l’Ogliastra, nove ore di “processo” davanti ai capi delle due organizzazioni parallele che gestivano i flussi di droga verso l’isola. Gli misero davanti la contabilità: soldi, nomi, telefoni. Lui giurò di non aver rubato nulla, di aver solo sbagliato strada. Alla fine lo lasciarono andare, “per stavolta”, dissero. Un modo per ricordare a tutti chi comanda e quanto vale una vita dentro il commercio della polvere bianca.
L’omicidio. Poi c’è il sangue vero, quello che non si cancella. Il 9 luglio 2024, ad Arzana, Beniamino Marongiu – autista, uomo di fiducia, pedina pesante del sistema Locci – viene ucciso in piazza. Il killer, dicono gli inquirenti, sarebbe stato Sandro Arzu, vecchio nome del traffico isolano, un tempo socio, poi rivale. L’arrestano, ma pochi giorni dopo si toglie la vita in carcere. Due morti e una sola certezza: il silenzio. La voce che resta, nelle intercettazioni, è quella di un uomo che dice: «Qui ti ammazzano per cento euro e poi fanno finta di niente»..Il fascicolo racconta anche di minacce tra corrieri, di armi tenute in casa “solo per sicurezza”, di consegne che diventano trappole. Una volta un affiliato racconta, ridendo nervosamente: «Mi hanno detto “porta i copertoni”, io pensavo fosse un’officina. Invece erano pacchi. Se parlavo mi lasciavano lì, in mezzo alla strada». È da queste parole si capisce la vera anatomia del narcotraffico sardo: una piramide eretta sul terrore e sull’obbedienza dei più piccoli. Un investigatore, nelle note a margine del fascicolo, lo riassume così: «Il sistema non si regge sulla forza dei capi, ma sulla paura dei sottoposti». E in quella frase, asciutta e burocratica, c’è tutto.