La Nuova Sardegna

Sassari

Il processo

Titti Pinna ricorda la prigionia: «Volevo morire»

di Luca Fiori
Titti Pinna ricorda la prigionia: «Volevo morire»

In Corte d’assise a Sassari la deposizione dell’imprenditore di Bonorva sequestrato 19 anni fa

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Sassari «Volevo morire, non mangiavo più. Poi ho trovato la forza pensando alle persone che mi aspettavano a casa». La voce di Giovanni Battista “Titti” Pinna ha attraversato l’aula della Corte d’assise di Sassari, lasciando un silenzio carico di tensione e commozione. Pantaloni blu, camicia a righe, sguardo fermo ma segnato dai ricordi, l’allevatore di Bonorva di 56 anni ha raccontato, cercando ogni tanto in aula lo sguardo della sorella Maria Margherita, gli otto mesi di prigionia, che 19 anni fa hanno segnato la sua vita.

Davanti alla Corte presieduta da Giancosimo Mura, a latere Monia Adami, oggi 30 settembre 2025, Titti ha risposto alle domande del pm Gilberto Ganassi e dei difensori dell’imprenditore di Nulvi Michele Piredda, imputato di concorso nel sequestro: l’avvocato Antonella Cuccureddu e l’avvocato Ilaria Pinna, che hanno chiesto chiarimenti su alcuni dettagli del trasporto dell’ostaggio e sui messaggi inviati dai sequestratori alla famiglia Pinna durante la prigionia. In aula ha deposto anche il poliziotto Pier Giuseppe Foddai, della questura di Sassari, che all’epoca seguì le indagini. Titti ha ripercorso i drammatici momenti del 19 settembre 2006: «Ero a Monti Frusciu, dove tenevo le vacche. Nei giorni precedenti erano successe cose strane: cancelli aperti e piccoli furti. Quella sera non dovevo andarci ma avevo dimenticato la pompa sommersa accesa».

Poi l’agguato: tre uomini armati, un fucile puntato, il calcio della pistola che gli rompe il naso, l’incaprettamento nel portabagagli della sua Punto, il viaggio con gli occhi bendati. «Avevano tentato di rapire mio padre e mio zio – ha ricordato Titti Pinna  – un altro zio rapito non è mai tornato a casa». Poi la richiesta del riscatto: la telefonata poco dopo il prelievo, alle 18.04, a casa della zia Ica, la voce della sorella Maria, i 300mila euro chiesti dai sequestratori, e infine la prigionia nell’ovile di Sedilo. «Mi hanno calato dall’alto in una buca, su un materasso, sono rimasto con una catena al collo lunga un metro per otto mesi. Pregavo, contavo i giorni in base al pasto che mi portavano. Mi ero sbagliato, pensavo fosse passato meno tempo. Poi un giorno ho sentito una voce che mi ha detto: “È arrivato il giorno”». Con una forchetta e un gancio ha tolto il fil di ferro che legava la catena, ha rotto le balle di fieno, è fuggito fino alla GMC e da lì ha chiamato casa: «È arrivata l’ambulanza, poi i carabinieri». Il pm Ganassi lo ha aiutato a ricordare alcuni dettagli che l’ex ostaggio aveva rimosso.

L’avvocata Cuccureddu e l’avvocata Ilaria Pinna hanno chiesto se fosse mai stata fatta una prova per determinare in quale auto fosse stato trasportato. «Non è mai stata fatta», ha risposto Titti.  Assente in aula l’imputato, l’imprenditore di Nulvi Michele Piredda, 58 anni, accusato di concorso nel sequestro: secondo la Dda di Cagliari, avrebbe messo a disposizione dei rapitori un Renault Kangoo utilizzato per trasferire l’ostaggio da Bonorva a Sedilo. Per il rapimento di Pinna sono già stati condannati in via definitiva Salvatore Atzas, Giovanni Maria Manca, Antonio Faedda e Giovanni Sanna, detto Fracassu.

L’udienza, intensa e carica di emozione, è ripresa con la testimonianza di un altro investigatore e poi è stata aggiornata al 21 ottobre, quando il processo riprenderà con altri testimoni.

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