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Il sogno di JP10: «Dal Cagliari alla Nazionale»

di Roberto Muretto
Joao Pedro
Joao Pedro

Intervista all'attaccante brasiliano da cinque anni con la maglia rossoblù

14 ottobre 2019
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CAGLIARI. Croce e delizia. Joao Pedro è così, prendere o lasciare. Quando si accende ha mezzi tecnici per fare giocate da campione. Se incappa nella giornata storta, commette errori che fanno irritare. L’attaccante brasiliano ha messo radici a Cagliari. Sono passati cinque anni da quel primo settembre del 2014, ultimo giorno di mercato, quando la società rossoblù decise di puntare su di lui. Ormai fa parte dello zoccolo duro della squadra, è un punto di riferimento nello spogliatoio. In questa intervista si racconta senza veli. Ha un sogno nel cassetto: formare con Neymar e Coutinho il tridente della nazionale verdeoro.

Da chi ha ereditato la passione per il calcio?

«Da mio papà. Lui ha giocato a livello professionistico e io da piccolo andavo sempre a vedere le sue partite. E' lì che mi sono innamorato di questo sport».

Andrebbe a giocare fuori dall'Italia o le piacerebbe tornare in Brasile?

«Da noi il campionato incuriosisce ed è seguito. In Europa si gioca un calcio ad altissimo livello. A Cagliari sto benissimo e potrei restare fino a quando smetterò. Una esperienza nella Liga o nella Premier League non la rifiuterei. Ma ora nella mia testa ci sono solo i colori rossoblù».

Chi sono i difensori più forti che ha affrontato?

«Chiellini e Koulibaly sono proprio "tosti", mi hanno messo in difficoltà. La stessa cosa ha fatto Bruno Alves, al quale invidio la longevità sportiva».

Lei ascolta i consigli, oppure fa sempre di testa sua?

«Li ascolto, chiunque sia a darmeli. C'è sempre da imparare. Mio padre mi ha insegnato che non bisogna mai sentirsi arrivati. Ascoltare è sinonimo di intelligenza».

E' scaramantico?

«No. Anche in Brasile c'è questo tipo di cultura ma in Italia è più accentuata. Io vivo tranquillo, non penso a queste cose e non seguo riti particolari prima delle partite».

Quando ha cominciato a pensare che poteva vivere giocando a pallone?

«Da quando ero nel settore giovanile ho sempre creduto che ce l'avrei fatta a fare il calciatore professionista. Non sono presuntuoso, ma non ho mai avuto dubbi sul fatto che sarei arrivato. Questa convinzione è stata la molla che mi ha spinto a dare sempre il meglio».

Chi le ha fatto da Cicerone nel calcio?

«Mio padre. Lui mi spiegava le difficoltà di questo sport, mi diceva che per diventare un grande non servono solo le capacità tecniche ma anche la testa sulle spalle. Le sue parole le porto nel cuore e credo di aver messo in pratica i suoi insegnamenti».

Le è mai capitato di insultare un arbitro?

«Con i fischietti penso di avere un buon rapporto. Qualche volta ho esagerato nelle proteste, ma così come contesto una decisione che secondo me è sbagliata, faccio i complimenti e azzeccano una scelta difficile».

Che cosa la fa arrabbiare di più nello spogliatoio?

«Quando in campo non dai tutto, non vivi il momento e non provi nemmeno a coglierlo. Questo succede non solo nel mio lavoro ma in generale nella vita di tutti i giorni».

Quali sono state le vittorie più importanti?

«Intanto giocare in serie A. Avere indossato la maglia della nazionale brasiliana. La prima volta che è successo non posso descrivere la gioia che ho provato. Essere in una società come il Cagliari che ha un progetto ambizioso e punta su di me».

Faccia, invece, il podio delle sconfitte.

«La retrocessione in serie B è stata una ferita che si è rimarginata dopo tanto. Da me stesso mi aspettavo di più. Ho giocato nelle giovanili con Neymar, Coutinho, Alisson, Casemiro, Alex Sandro, tutti loro fanno la Champions League, io ancora non ci sono riuscito. Ma proprio questa voglia mi spinge a lavorare tanto, convinto che posso raggiungere questo traguardo».

Uno sport, oltre a quello che pratica, nel quale le sarebbe piaciuto emergere?

«Il basket, anche se sono una schiappa. Ammetto di guardare in tv più partite di pallacanestro che di calcio. Le rivelo una cosa: ero bravo nel volley, ma poi ha vinto la passione per il calcio».

Quali sono i luoghi dove preferisce stare?

«A casa mia in Brasile dove mi stacco totalmente dal mondo. Poi Cagliari e le sue bellezze. Qui con la mia famiglia ci troviamo benissimo».

Doveva essere ceduto in estate, invece è rimasto ed è il bomber del Cagliari. Una rivincita?

«Per niente. Il periodo del mercato l'ho vissuto serenamente, sapevo che molte delle voci circolate non erano fondate. Così come non era vero che io volessi andarmene. Ci tengo tanto a stare qui e ringrazio la società per le opportunità che mi offre».

Il Cagliari in Europa?

«Troppo presto per parlarne. Non ci pensiamo, lavoriamo per crescere e migliorarci. Sono arrivati giocatori importanti, avere ambizioni è bello ma essere razionali lo è ancora di più».

Ma il presidente Giulini è ambizioso, ha investito non solo sulla prima squadra ma anche sul settore giovanile.

«Vero, è stato fatto un mercato importante e si sta facendo un grande lavoro sul vivaio. Cagliari merita un progetto al quale vengono date gambe in modo responsabile, facendo i passi giusti. Sono orgoglioso di fare parte del progetto».

Troppi cartellini, troppe proteste, non le sembra di doversi dare una calmata?

«Sono un veterano della squadra e tante volte intervengo per difendere i compagni. Ammetto che da questo punto di vista devo migliorare».

Quando vede il muro dei tifosi della Nord che squadra brasiliana le viene in mente?

«Nessuna, perchè i tifosi del Cagliari sono unici e speciali».

Chi gioca il calcio più spettacolare in Italia?

«Juventus, Inter e Napoli che hanno grandi individualità. Ma se devo fare una scelta su quale partita guardare, tutta la vita quelle dell'Atalanta. E' una squadra che diverte».

Vede sempre il bicchiere mezzo pieno?

«Sono una persona positiva in ogni occasione».

Lo sfizio che si è tolto da quando fa il professionista?

«Ho comprato una casa alla mia mamma. Era questo il mio primo obiettivo».

Il suo tridente delle meraviglie: Joao Pedro...

«Neymar e Coutinho. Mi piacerebbe giocare con loro in nazionale. Un sogno sì ma non è detto che non si avveri».

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