La Nuova Sardegna

Virgilio, John Cheever e Glen Grant

di LUCIANO MARROCU

“Un delitto alla Sapienza”, la filosofia alcolica di Eliseo Soddu, anziano docente di Sanscrito

30 giugno 2016
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di LUCIANO MARROCU

Persino mio padre dal buio profondo di una vecchiaia malmostosa aveva finito con l’ammettere che le cose mi stavano andando bene. Avrebbe preferito la «carriera ecclesiastica», come amava ripetere, ma poi aveva ammesso che quella universitaria offriva le sue sicurezze, prima fra tutte uno stipendio che adesso si avvicinava al suo degli ultimi anni da funzionario di banca, quando gli avevano assegnato la responsabilità della cartella «Corrispondenze riservate o non identificabili».

Di mio padre è bene far subito conoscenza, premettendo che da qualche mese non è più fra noi. L’esperienza decisiva nella sua formazione fu quando, arrivato tredicenne nel collegio dei salesiani di Lanusei, scoprì che mio nonno si era accordato col superiore per una riduzione della retta, che lui, mio padre, avrebbe ripagato, giorno dopo giorno, servendo i suoi compagni a tavola. Reagì alla quotidiana umiliazione, diventando il primo della classe. Arrivato all’ultimo anno di liceo venne praticamente espulso dal collegio per aver ricevuto insistenti lettere d’amore, una sorta di stalking ante litteram, da una cugina di dieci anni più vecchia di lui. Da quel momento suo padre lo fece studiare in privato, in altre parole lo invitò a far da sé. La maturità la diede al Dettori di Cagliari, lo stesso liceo dove aveva studiato Gramsci, un particolare che l’ha sempre lasciato indifferente.

Era nato a Monserrato, mio padre, un grosso borgo di vignaioli. A Monserrato è nato Fortunato Manca, un welter dal destro esplosivo. Ricordo come fosse oggi le luci dei riflettori quando entrai con mio padre all’Amsicora per il match tra Fortunato Manca e Frans Nevens, un belga con fama di pugile tosto ma che tanto tosto non doveva essere visto che Fortunato Manca lo demolì in pochissime riprese. Con delusione di mio padre, che avrebbe voluto uno spettacolo anche nella durata all’altezza del costo dei biglietti. Era stato qualche anno prima che il Cagliari aveva giocato contro il Venezia uno spareggio per la serie A e, naturalmente, aveva perso. Mio padre si era imbarcato con un manipolo di scalmanati su una nave della Tirrenia, spiegandomi al ritorno che la sconfitta l’aveva perfettamente prevista. Gli avevo chiesto perché, se sapeva già dall’inizio come sarebbe andata a finire, si fosse sobbarcato la fatica e le spese di arrivare sino a Roma. Mi rispose che voleva assaporare a fondo la lezione che la vita gli avrebbe dato.

Di me vanno dette due cose. La prima è che, aspirando sin da giovanissimo a condurre una vita da dandy, abbandonai Cagliari – dove questo stile di vita è impraticabile – appena ne ebbi l’occasione. La seconda, che al tempo dei fatti che sto raccontando – la primavera del 2002 – non disprezzavo i vantaggi del successo, anche quelli che molti considerano volgari. Va da sé che questo dozzinale autocompiacimento lo tenevo nascosto, preferendo presentarmi al mondo nei panni di chi pensa la vita come cosa vana. «Scacco» e «fallimento», erano allora le mie parole preferite, sia a lezione – insegno Filosofia morale – sia nelle frequenti conversazioni che intrattenevo con dottorande e borsiste. Credevano di essere ciniche e pronte a tutto ma ero io che le circuivo. Crisi della Cultura Occidentale, scacco esistenziale, fallimento, fallimento del linguaggio soprattutto, anche se per illustrarlo non avevo che la parola. Va anche considerata una mia attività di romanziere. Romanzi di genere, gialli, che hanno difficoltà a trovare un editore e che presento, in qualche oscuro caffè letterario.

Mi sono andate meglio le cose in campo accademico ed erano i successi accademici che i miei colleghi invidiavano. Io invidiavo alcuni di loro perché diversamente da me erano studiosi originali. Questo, comunque, è un lato di me di cui preferisco non parlare.

A qualcuno, però, certe mezze confessioni le facevo, allora, in particolare al mio amico e collega Eliseo Soddu. Anziano professore di Sanscrito, Soddu mi aveva preso in simpatia e adottato quando quindici anni prima avevo fatto il mio ingresso nel dipartimento di Filosofia. Che Soddu m’avesse scelto era anche legato al fatto che anch’io sono sardo e due sardi lontano dall’isola, si sa, fanno Sardegna. Delle tradizioni sarde amiamo cose diverse, lui il coro di Aggius io Benito Urgu, soprattutto quando fa la signora Desolina. Più che il suo unico amico, ero la sola persona, a cui al di fuori dell’ambente di lavoro rivolgesse la parola. Parole ad alta gradazione alcolica, di solito. Non aveva gusti particolarmente raffinati, Soddu. Glen Grant era la sua marca di wisky preferito, ma c’erano delle situazioni in cui non poteva fare a meno di attaccarsi al bottiglione di China Martini. Così capitò la sera del 14 maggio 2001 quando fu chiaro che Berlusconi aveva vinto le elezioni. Erano le sei di sera e tutto ormai era deciso. Alle sette di sera il bottiglione di China Martini era ai tre quarti, alle otto di sera ho visto Soddu, la mano destra appoggiata sulla mattonella del bagno, che pisciava e piangeva. Una pisciata che a momenti s’interrompeva per poi riprendere di nuovo, disperata e interminabile.

Era andata anche peggio nel 1994. Mi aveva fatto paura Soddu, quando ai primi dati certi sulla vittoria elettorale di Berlusconi era rimasto in silenzio per almeno mezz’ora per poi leggermi un passo delle Georgiche, pretendendo che mi appassionassi a un certo problema di traduzione che, diceva, lo angustiava da sempre. Dopo le Georgiche, riprese a parlare delle elezioni, continuando a ripetere che, come Galileo non riusciva a capire le orbite ellittiche dei pianeti – aveva orrore dell’ellisse, Galileo – , lui non capiva Berlusconi, anzi ne aveva orrore. Del suo alcolismo, Soddu non sapeva farsene una ragione né, come diceva dopo il terzo Glen Grant, riesciva «a ricostruire la genesi». Così cercava modelli letterari a cui adeguarsi. Gli andava abbastanza bene John Cheever, la sbronza come resa. Ancora meglio, come lo stesso Cheever descrive Scott Fitgerald: «Uno di quegli uomini che leggono le tragiche vicende di scrittori alcolizzati, autodistruttivi, con un bicchiere di whisky in mano e le guance bagnate di lacrime».

. 2. CONTINUA

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