La Nuova Sardegna

Shakespeare in sardo: l’urlo di Macbettu squarcia il mondo

di Paolo Curreli
Shakespeare in sardo: l’urlo di Macbettu squarcia il mondo

Lo spettacolo di Alessandro Serra raccoglie applausi e critiche positive ed è già un classico del teatro contemporaneo: per la compagnia un 2019 tutto in tournée

10 novembre 2018
8 MINUTI DI LETTURA





Macbeth in sardo è da vedere, a distanza di due anni dalla bocciatura del critico Cordelli: «Una cosa che non vedo l’ora di non vedere». Il prestigioso premio Ubu, 95 repliche in 11 Paesi, 57mila spettatori e l’agenda piena per tutto il 2019, il Macbettu del regista Alessandro Serra, tradotto in sardo-nuorese da Giovanni Carroni – che interpreta anche il Barone Banquo – si afferma come un classico del teatro contemporaneo. «Domani e domani e domani...» il celebre soliloquio di Macbeth risuona nei palchi del mondo in sardo: «Sincras e sincras e sincras...». Tutto nasce dallo sguardo del regista, figlio di emigrato, che riconosce in un viaggio da adulto il mondo che da bambino non comprendeva. L’incedere delle maschere barbaricine aveva richiamato, nello sguardo di Serra, la foresta che avanza dell’opera di Shakespeare e il bambino nelle vesti di issohadore il fanciullo che profetizza che Macbeth sarà invincibile finché non vedrà il bosco che cammina.

Gli uomini vestiti da donna del carnevale di Bosa si trasfigurano nelle streghe scespiriane. Una visione che restituisce il cupo inverno scozzese, dove la lingua sarda appare come quella più adatta per raccontare la vicenda di potere e di sangue. Perfetto come la musica usata, quella ancestrale delle pietre sonore di Sciola, o il dialetto sassarese, unica variazione linguistica, del Portiere-giullare Maurizio Giordo. Un registro sardo capace di parlare al mondo, lontano dal folklore e «dalla pantomima di un popolo» come sottolinea Serra nell’intervista che svela la storia e i retroscena del suo lavoro. Un percorso non facile, perfino osteggiato, come del resto tante opere d’arte, proprio perché si immaginava – con un preconcetto duro a morire –, la lingua madre come “localismo” o perfino “regionalismo reazionario” in un mondo dove le frontiere (ma solo quelle delle merci e del denaro) sono cadute. Alessandro Serra, Giovanni Carroni, Leonardo Capuano (uno straordinario Macbettu) e Maurizio Giordo raccontano per La mia Isola questa straordinaria opera d’arte che ha portato una Sardegna vera nei palchi del mondo.

Alessandro Serra è diretto e preciso, soddisfatto del successo ma ancora di più della conferma, su decine di palchi del mondo, della sua visione della tragedia di Shakespeare, prospettiva molto fraintesa nei momenti iniziali. «Ho sempre avuto un rapporto particolare con i critici, non li ho mai cercati anche se ritengo alcuni di loro competenti e preparati. Può nascere un’amicizia ma certo non devono mai diventare amanti degli artisti. Cosa che ahimè accade sempre più spesso... Il rapporto a distanza è quello che preferisco. Questa è una premessa importante sul caso di Cordelli e sulla sua frase: “Macbettu in dialetto sardo, altro spettacolo che personalmente non vedo l’ora di non vedere”, che uscì il 3 settembre del 2016 sul supplemento La Lettura del Corriere della Sera. Insomma, il concetto dell’articolo era in gran parte condivisibile, perché parlava di tutta la produzione della stagione che si stava aprendo, con i soliti titoli e registi immancabili, poi c’era quella frase lì che è piaciuta al titolista. Sia chiaro, una piccola polemica che in realtà ha giovato molto a Macbettu.

Locale e universale

«Quello che mi ha davvero infastidito è stato l’accanimento di Franco Cordelli, che considero un uomo libero e preparato, per ben cinque volte in diversi articoli: Macbettu era, per lui “reazionario” perché “teatro regionale e rivendicativo di un ipotetica identità”. Mi è parsa la sua una posizione preconcetta, non potendo più ignorare il successo dello spettacolo». Esattamente il contrario di quello che il lavoro di Alessandro Serra e della compagnia Teatropersona ha rappresentato, con la sua universalità, nel mondo. «Io sono orfano e lo sono anche di qualsiasi nazione o patria – precisa il regista –. Certo mi sento sardo, sardissimo nonostante il mio accento romano. Da ragazzino mi chiamavano Sardegnolo e mi arrabbiavo, ma non mi interessa il nazionalismo o la politica, io mi occupo di archetipi, sono quelli il centro del mio lavoro su Macbeth. Sono contrario alla chiusura come sfuggo all’immagine olografica della Sardegna o alla sua pantomima da svendere a uso e consumo dei turisti. L’archetipo è universale, qualcosa di molto più grande delle beghe alla Salvini, che vede il mondo come un condominio. La lingua giusta per il mio Macbeth era il sardo del Nuorese, la bellezza di ogni linguaggio è la sua musicalità, Shakespeare in italiano lo trovo verboso, incantabile, proprio perché l’italiano è una lingua artificiale e letteraria. Il sardo è una lingua molto più antica dell’italiano, ha un suono che rappresenta la forza della natura. A Tbilisi ci hanno accompagnato i tenores Murales di Orgosolo, come si fa a non essere incantati da una canto simile?

«Un canto che, giustamente, l’Unesco ha confermato come patrimonio immateriale dell’umanità. L’universalità e la potenza del nostro lavoro è stata confermata durante questa tournée. Il pubblico ha reagito sempre allo stesso modo in ogni latitudine: un grande silenzio e concentrazione durante lo spettacolo ma anche profonde risate liberatorie e un’esplosione finale davvero impressionante con tutto il pubblico in piedi ad applaudire. Altro che regionalismo, non credo che in Finlandia, a Sarajevo o a Buenos Aires cogliessero o sapessero delle differenze regionali, anche se a Bogotà è comparsa tra il pubblico la bandiera dei Quattro mori. Questa universalità del Macbettu era il mio obiettivo e lo abbiamo raggiunto dopo una strada certamente complicata».

L’incontro folgorante

«Nessuno credeva nel mio progetto – continua Serra –, in Italia ma anche in Sardegna abbiamo avuto tanti “no”, è stato difficile trovare gli attori, tutte le porte erano chiuse ad eccezione della più preziosa per fortuna, quella di Giovanni Carroni. Vero daimon (anima che si fa corpo) in questo mio personale e universale ritorno a casa. Devo ringraziare Valeria Ciabattoni, direttrice del Cedac, che ha creduto da subito nel progetto, e il direttore artistico di Sardegna Teatro, Massimo Mancini che ha subito prodotto e poi sostenuto coraggiosamente Macbettu». Giovanni Carroni è il Barone di Scozia Banquo, l’altro volto della bramosia di potere che incatena Macbettu. Un ruolo, tra l’onore, la fedeltà e l’ambizione profetizzata dalle streghe, che sembra cucito addosso l’attore nuorese. Il lavoro sul sardo e sul teatro del corpo in più di 30 anni di carriera di Giovanni Carroni si concretizza ancora una volta sul palco del Macbettu. Un percorso che ha inizio nel 1988 con la fondazione della compagnia nuorese Bocheteatro (dopo aver studiato, oltre che in Italia, in Francia e Spagna). Già nel 1999 Carroni realizza un progetto simile al Macbettu, “Paska Devaddis” di Michelagelo Pira , per la regia di Theodoros Terzopoulus (sempre con Sardegna Teatro) che Carroni, per gli strani casi della vita, rincontrerà in Giappone a settembre col Macbettu, perché il grande regista greco è il direttore artistico del teatro della regione di Toga-mura insieme al grande Tadashi Suzuki. Spiega Carroni: «Quel lavoro parlava della faida barbaricina come di una piccola guerra, tremenda come le grandi e come quelle nata per motivi di basso interesse. Ecco, anche allora il particolare diventava universale. Poi questa visione si era interrotta, non aveva trovato una strada, e io avevo perso la speranza, fino al folgorante incontro con Alessandro Serra che tornava nella terra del padre, e con la volontà di capirla meglio incontrava i riti del carnevale di Mamoiada. Da grande fotografo Alessandro aveva fermato le immagini potenti dei Mamuthones ritrovando in quel “teatro improprio”, così diffuso nelle ritualità della Sardegna, un impulso da cui poteva attingere».

Vite incrociate

In questo i due artisti avevano riconosciuto una fascinazione comune, un teatro prima di tutto del corpo, nello spirito della compagnia Teatropersona ispirato da Jerzy Grotowski: «Non cerco di scoprire qualcosa di nuovo, ma qualcosa di dimenticato. Una cosa talmente vecchia che tutte le distinzioni tra generi artistici non sono più valide» come diceva il drammaturgo polacco, e lo spirito dionisiaco dell’altro nume e maestro di Carroni: il greco Terzopoulus. Due strade che hanno incrociato le vite artistiche di Serra e Carroni. «Ho scoperto poi essere “sardegnolo” il nome con cui si chiamano gli asini della Sardegna – confessa Serra–. E l’asino non è il segno animale di Dioniso? Forse in quell’insulto crudele d’infanzia c’era già inscritto tutto il mio destino: il ritorno a casa di un sardo devoto a Dioniso».

Giovanni Carroni si era assunto l’onere di tradurre in sardo la storia del trono rubato con l’inganno e la violenza: questa estremamente riassunta, la genesi del Macbettu. Ora che il lavoro ha vinto il premio Ubu e tanti altri riconoscimenti, e la compagnia Teatropersona ha raccolto gli applausi del mondo come vede la sua traduzione Giovanni Carroni? «Una operazione che funziona nella sua intensità. Perché il sardo si nutre della tradizione orale, quello che si dice è quello che è. Non esistono le grandi differenze tra la lingua scritta e quella parlata come in italiano, le parole sono musica, ritmo e concretezza. Ma è proprio la musicalità che impone una perfezione nei tempi e negli accenti, perché una frase o una parola sbagliata appaiono falsi, non “rotolano” bene. Un grande impegno per tutti noi». Macbettu è un’opera molto fisica ma raccoglie la sua efficacia soprattutto per la potenza della lingua e dei suoni.

«Una forza che è stata percepita dappertutto – racconta Carroni –. È la potenza che si dilata nel significato della lingua madre, che ogni popolo possiede, per me la lingua è un oggetto di scena, come il pane carasau che il fantasma Banquo calpesta sulla tavola: a ogni latitudine il pane ha un significato preciso e calpestarlo diviene una simbologia potente anche per il pubblico che non conosceva il carasau e solo in un secondo momento riusciva a cogliere il significato tremendo di quello scricchiolio. Come la terribilità delle pietre con cui si uccide, una colpa pesante che si tenta inutilmente di nascondere. È lo spirito di sangue e corpo di Dioniso che ci parla ancora».


 

In Primo Piano
Trasporti

Aeroitalia, voli in overbooking: è polemica su call center e check-in online

di Claudio Zoccheddu
Le nostre iniziative