La Nuova Sardegna

I mille tormenti di Carmelo giovanotto inabile alla vita

di Alessandro Marongiu
I mille tormenti di Carmelo giovanotto inabile alla vita

Giunto al suo terzo libro Giulio Neri si conferma uno scrittore molto interessante e disseppellisce una gloriosa figura letteraria del Novecento: quella dell’inetto 

24 maggio 2020
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«Eh, la crisi del Ventinove…»: a sentir pronunciare questa frase, noi tutti penseremmo subito alla Grande Depressione che quasi un secolo fa, a seguito di un crollo della Borsa di Wall Street, diede avvio a un nefasto terremoto economico e finanziario che scombussolò i quattro angoli del mondo. Se però a pronunciarla, facendo della non eccelsa autoironia, è Carmelo Hayez, protagonista del nuovo romanzo di Giulio Neri “Portoro” (Il Maestrale, 240 pagine 18 euro), le cose cambiano: il tribolato giovanotto si riferisce infatti al numero di anni che ha appena compiuti, ventinove, e alla depressione (giusto un poco meno grave di quella del passato) che lo attanaglia ormai da tempo.

A peggiorarne la situazione, ecco che il padre Giovanni bussa alla porta e gli rovina definitivamente il giorno di festa: «È morto Maradona!». No, non si tratta, come noi tutti penseremmo subito, del Pibe de Oro, ma di Tonino detto Maradona, talentuoso compagno di Carmelo nella squadra di cui Giovanni è proprietario e presidente, che non ha retto all’ennesimo abbandono sentimentale e si è tolto la vita. Del resto, l’esistenza di Carmelo fin qui è stata all’insegna del malinteso, dell’infortunio, dell’incompiutezza: un lungo depistaggio dalla via della felicità (o perlomeno della serenità: «Per lavorare sull’epica della sconfitta, e perfezionare la demolizione di sé, non dovevano esserci remore. Carmelo non aveva dubbi al riguardo»). E laddove non è arrivato il fato maligno, ci ha messo lui del suo – non sarà un caso che nello spogliatoio l’abbiano soprannominato “Cretinhayez” – tra relazioni amorose che si trascinano oltre ogni ragionevolezza, altre che non riesce a far sbocciare, un’occupazione da perdigiorno e ambizioni artistiche cui non sa dare sostanza. Per giunta intorno a lui, in una città che forse inizia a manifestare i segni di un misterioso morbo, si agitano un padre apprensivo, una madre che lo vede ancora come un bambino, e amici e conoscenti scapestrati e talvolta ambigui. Uno spiraglio di luce, come spesso accade, verrà da un luogo e da persone lontani dalla sua quotidianità. Con “Portoro” e il suo personaggio principale, Giulio Neri disseppellisce una gloriosa figura letteraria del Novecento, quella dell’inetto. Perché, come tanti suoi illustri predecessori di carta, Carmelo è proprio questo: un inabile alla vita. Lui però, inoltre, è anche ammalato di un male eccezionalmente infido, la depressione, che permette in certe condizioni di condurre una vita solo all’apparenza normale. Neri, che tallona il protagonista da vicino in quello che si rivela più uno studio di carattere che un romanzo di formazione, conferma l’impressione suscitata con “Carta forbice sasso” del 2016 e con l’ottimo “A tie solu bramo” del 2018: siamo davanti a una nuova voce della narrativa da seguire con la massima attenzione. Giunto alla terza prova, si può anche provare delinearne un primo profilo, prendendo a guida i suoi temi d’elezione: situazioni e personalità liminari («Tacquero in un vuoto che ciascuno riempiva con la propria miseria»); il continuo dialogo con il cinema, la filosofia e la poesia; un occhio critico verso Cagliari e i suoi abitanti («In via Porcile, nel lezzo di frittura e tra i mastelli dell’umido come pietre miliari, pensò a “La peste” di Camus: che i ratti venissero così allo scoperto era sintomo di una degenerazione oltre metafora»).

L’attestazione del valore di Neri assume ancora maggior rilievo se si considera che “Portoro”, che è opera complessivamente riuscita, condivide con le due prove che l’hanno anticipato il principale difetto, ovvero una presenza autoriale troppo ingombrante, che proietta su vicende e voci dei personaggi un’ombra eccessivamente pervasiva. Dopo un trittico iniziale che possiamo considerare di rodaggio, dallo scrittore è ora lecito attendersi il definitivo salto di qualità: ha tutti gli strumenti che il compito richiede.

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