La Nuova Sardegna

I sardi piccoli e “compatti” del giallo di De Cataldo

I sardi piccoli e “compatti” del giallo di De Cataldo

Scuri e con sguardi impenetrabili gli isolani di “Un cuore sleale”  C’è molta Sardegna nell’ultimo lavoro dello scrittore maestro del noir

03 gennaio 2021
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A seconda del vostro orientamento verso le cose del mondo e della vita, comincerete il modo di dire “… è nei dettagli” con “Dio” o “Il Diavolo”. Che scegliate l’uno o l’altro, fatto sta che il detto testimonia di un identico fatto: i dettagli sono importanti. Molto.

E dai dettagli partiremo per parlare di “Un cuore sleale” di Giancarlo De Cataldo (Einaudi, 250 pagine, 17 euro), secondo titolo dedicato alle investigazioni del magistrato appassionato d’opera Manrico Spinori. Nella squadra del quale c’è una collaboratrice presentata come «imbattibile al computer non solo per via dell’abilità tecnica, ma anche di sinapsi degne di un premio Nobel e dotata di caschetto alla Valentina di Crepax»: fin qui, a parte la sciatteria stilistica, niente da rilevare. Le questioni insorgono infatti in merito ad altri dettagli della caratterizzazione. Il personaggio è sardo: e come non si farebbe neppure rispondendo al più meccanico dei riflessi condizionati, ecco che, manco fosse logica conseguenza della sua origine, la collaboratrice è «piccola, compatta» e sempre «corrucciata». Si chiama – ovviamente – Gavina. E il suo tratto distintivo dal punto di vista comunicativo sono – ovviamente – frasi come «il motivo altro è», «sull’origine del nome niente si sa», «Brutto tipo è».

Si dirà: forse che un personaggio sardo non ha diritto a chiamarsi Gavina, a essere fisicamente piccolo e compatto (possibile che non ci fosse un aggettivo migliore di «compatta»?) e a esprimersi esibendo delle interferenze tipiche delle costruzioni sintattiche della limba, solo perché queste attribuzioni corrispondono al prototipo del “sardo” diffuso nel più vieto immaginario comune? Certo che ne ha diritto: ci mancherebbe. Poco oltre, però, spunta fuori un altro isolano: il marinaio Angelo Putzolu. Che è pure lui «piccolo» (del resto, la razza quella è) nonché – ovviamente – «scuro» e dallo «sguardo impenetrabile». E che dopo un «Eja» messogli subito in bocca per rassicurare circa la sua provenienza, così si esprime: «di solito assai puntuale è»; «Quello piccolo davvero Renzo è». Si dirà ora: questi appunti sono figli della proverbiale permalosità del sardo, essendo sardo e rivolgendosi a lettori sardi chi scrive. Non avanzeremo smentite di sorta. Ma, per prolungare la lista di indizi-dettagli che ci fanno propendere per le accuse complessive di piattezza e mediocrità del libro, convocheremo a questo punto un comprimario che con la Sardegna non ha niente a che fare, il medico legale Stella Dubois.

Davanti al nome della quale De Cataldo fa così commentare, tra sé e sé, il suo Spinori: «Ah, ecco come si chiamava. Dubois. Stella Dubois. Un bel nome, con quel sapore di Francia». Insomma, un (cog)nome francese che ricorda la Francia. Più avanti leggiamo (e questo lo dobbiamo al narratore esterno): «Dubois apparve a Manrico come la stella che accende il firmamento nella notte dei terrori». Insomma, si chiama Stella e appare come una stella. Se ci si è concentrati tra il serio e il faceto sui dettagli è per due ragioni. La prima è che questi dettagli restituiscono compiutamente il tenore complessivo del romanzo. La seconda è che, ad accennare alla trama, non ci si crede: sembra di trovarsi davanti al più prevedibile dei Gialli Mondadori di settant’anni fa. Leggete le prime decine di pagine e formulate un’ipotesi sul colpevole: scoprirete che l’intuizione iniziale, la più elementare e scontata, è quella giusta.

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