La Nuova Sardegna

Africa e Italia, storia di un rapporto difficile

di Sante Maurizi
Africa e Italia, storia di un rapporto difficile

Il nazionalismo di D’Annunzio e il paternalismo di Pirandello nell’eterna rimozione del nostro passato colonialistico

05 gennaio 2021
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Pubblichiamo una sintesi del saggio “Pirandello e D’Annunzio, l’Etiopia e l’Africa: sulle tracce di una rimozione” pubblicato sul numero di dicembre 2020 di «Africa e Mediterraneo»

* * *di Sante Maurizi

Ai primi di giugno, sulla scia delle proteste iniziate negli Stati Uniti in seguito all’omicidio di George Floyd, anche in diverse città italiane si sono svolte manifestazioni al grido di Black Lives Matter. I giovani scesi in piazza, gli stessi del movimento contro la crisi climatica, hanno compiuto una sorta di rito liberatorio: il confinamento indotto dalla pandemia Covid-19 li aveva privati del contatto fisico e collettivo sperimentato con entusiasmo nel biennio precedente, sull’esempio delle azioni avviate da Greta Thunberg. Da sinistra si sono levate accuse contro il provincialismo dei ragazzi, subalterni alle mode che rimbalzano da oltreoceano e muti di fronte alle varie forme locali di discriminazione, xenofobia e razzismo. Da destra una florida pubblicistica digitale e su carta si è ad esempio preoccupata di ricordare che gli USA dovettero attendere il 1964 per emanare il Civil Rights Act, mentre il primo atto ufficiale compiuto dal generale De Bono nell’Etiopia appena conquistata fu l’abolizione della schiavitù.

Paternalismi speculari che congelano lo sguardo sul mondo con gli stessi, irrisolti “occhi italiani” di decenni fa, e che in ultima analisi – in buona o cattiva fede – mettono sotto accusa la scuola, incapace di riflettere sulla contemporaneità o sulle vicende nazionali degli ultimi cento anni. Nelle linee-guida per la scuola secondaria di secondo grado, per dire, le vicende del colonialismo italiano sono taciute, rubricate eventualmente sotto le voci Età giolittiana o Fascismo, a dispetto della ricerca storiografica e di ottime risorse per la didattica (bit.ly/ParriColonialismo). La recente ristampa per Adelphi di «Tempo di uccidere» di Ennio Flaiano potrebbe essere lo spunto per riflettere sull’Africa come “sgabuzzino delle porcherie”, e su quegli occidentali che ci andavano “a sgranchirsi la coscienza”, come scriveva l’autore. Così come potrebbe essere utile partire dalla cronaca della geopolitica mediterranea, dalle tensioni fra Egitto ed Etiopia per la diga Grand ethiopian renaissance, o dal crescente impegno della Cina nel Corno d’Africa per considerare à rebours le categorie di land-grabbing, globalizzazione, liberismo, colonialismo. Il che esigerebbe però approcci nemmeno più interdisciplinari, ma transdisciplinari.

Ma ci sarebbero modi più semplici per cominciare. Ad esempio riflettendo sul rapporto con l’Africa di due autori ben presenti nei programmi scolastici: D’Annunzio e Pirandello.

Il primo in «Più che l’amore», tragedia del 1906, aveva condensato nelle parole «vocazione d’oltremare» l’orizzonte che dopo l’Unità aveva sostituito l’epopea risorgimentale nel definire l’identità nazionale. Il protagonista Corrado Brando, reduce da un’impresa esotica, freme per tornare in Africa e cerca fondi per la spedizione tra ministeri e società geografiche, tentando la sorte al tavolo da gioco. Ha un servo sardo: Rudu, “homine de abbastu”, appartenente alla «razza dura che usava affrettare la morte all’agonizzante soffocandolo coi guanciali dell’accabadora». A incorniciare la sineddoche Sardegna-Africa, (caso particolare di quella Africa-meridione, la quale dà luogo a varie patologie che, come il mal d’Africa, producono il mal di Sicilia, Calabria, Puglia, ecc.) ecco il rito pagano: «Ora va, tornatene nel Monteferru; e in ogni primavera, quando la tua tanca s’empie d’asfodeli, accendimi un fuoco di lentisco sopra un nuraghe per memoria e non mi dimenticare nei tuoi canti». La letteratura di viaggio, l’orientalismo nelle arti visive, le “esposizioni etniche”, in seguito la canzone e il cinema, davano forma anche in Italia a un gusto che trasformò in breve la «vocazione d’oltremare» in consenso all’impresa armata: il colonialismo, fase suprema dell’esotismo.

Nota di Pirandello l’adesione al Fascismo, lo è meno l’eco mondiale – favorita dal fresco conseguimento del Nobel – che ebbe nel 1935 l’appoggio all’aggressione dell’Etiopia. Meno di un mese dopo l’invasione, il 29 ottobre, tenne un discorso alla presenza di Mussolini al teatro Argentina di Roma per l’inaugurazione dell’anno comico: «L'Autore di questa nostra grande opera in atto (la guerra, n.d.r.) è un Poeta che sa bene il fatto suo. Vero uomo di teatro, eroe provvidenziale che Dio al momento giusto ha voluto concedere all'Italia: e ogni volta opportunamente sa dire la giusta parola a tutti, sia che la sua voce debba essere udita e vagliata oltre i confini della Patria, sia che in Patria parli alle milizie che partono per conquistare al popolo italiano, che ne ha diritto e bisogno, un po’di terra al sole».

Un linguaggio che stride con la nostra percezione di una gloria nazionale, costantemente rappresentato sui palcoscenici. Una prosa, più che dannunziana, da velina di regime.

Continua a operare, anche nella riflessione su quel linguaggio, lo schema crociano del fascismo come parentesi. Da una parte l’estraneità di quelle parole all’icona pirandelliana giustifica l’idea di una compromissione col regime, per quanto innegabile, incidentale. Dall’altra contribuisce all’idea di una retorica circoscritta a quella parentesi, con tutte le cadenze da regime da operetta messe in ridicolo per la prima volta da Charlie Chaplin nel Benzino Napaloni del «Grande dittatore».



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