La Nuova Sardegna

Goffredo Fofi, se il pensiero è nomade

Goffredo Fofi, se il pensiero è nomade

Arriva nelle sale il film di Felice Pesoli “Suole di vento”. Una biografia che è anche storia della cultura e della società

17 ottobre 2021
6 MINUTI DI LETTURA





“Suole di vento” è il soprannome che Paul Verlaine diede ad Arthur Rimbaud. Non è ovviamente casuale la scelta del regista Felice Pesoli di intitolare così, “Suole di vento”, il documentario, passato fuori concorso alla 38esima edizione di Torino Film Festival, che ripercorre la biografia di Goffredo Fofi, intellettuale (ma a lui questa parola non piace) per molti versi atipico nel panorama della cultura italiana. Fofi è infatti, come Rimbaud, un nomade. E lo è, come Rimbaud, per il terrore che la vita, e con essa il pensiero, si irrigidiscano in figure di morte. Da Gubbio a Palermo, da Roma a Torino, da Parigi a Milano a Napoli, il suo percorso si configura come una lunga mai conclusa fuga. Non la fuga del vile, ma al contrario quella dell’avventuroso; quel movimento salvifico di cui parla Henry Laborit nel suo aureo libretto “Elogio della fuga” (1976, ripubblicato da Mondadori tre anni fa): «Quando non può più lottare contro il vento e il mare per seguire la sua rotta, il veliero ha due possibilità: l’andatura di cappa (il fiocco a collo e la barra sottovento) che lo fa andare alla deriva, e la fuga davanti alla tempesta con il mare in poppa e un minimo di tela. La fuga è spesso, quando si è lontani dalla costa, il solo modo di salvare barca ed equipaggio. E in più permette di scoprire rive sconosciute che spuntano all’orizzonte delle acque tornate calme. Rive sconosciute che saranno per sempre ignorate da coloro che hanno l’illusoria fortuna di poter seguire la rotta dei carghi e delle petroliere, la rotta senza imprevisti imposta dalle compagnie di navigazione. Forse conoscete quella barca, si chiama Desiderio».

Scioperi al contrario

Sin dall’inizio è fuga. Con un diploma delle magistrali, poco più che adolescente Fofi fugge dal recinto della Gubbio cattolica e contadina dov’era nato il 15 aprile del 1937 per mettersi nel mare aperto e ignoto dell’impegno sociale in Sicilia con Danilo Dolci, nella Partinico degli anni dopo la guerra dove i bambini per la miseria morivano di fame: «Quella è stata la mia università». Una forma di impegno civile lontana – racconta Fofi nel docufilm di Pesoli – dai modi in cui allora si poteva stare dalla parte degli ultimi, «a sinistra nel Partito socialista o nel Pci»: accanto ai miserabili con la forza della pura testimonianza di vita. Azione non violenta, scioperi della fame e scioperi al contrario (lavorare le terre abbandonate del latifondo, prendersi cura dei beni comuni lasciati all’incuria e al disfacimento). Col tempo però emergono i limiti di questa scelta, e appaiono insopportabili. Un girare a vuoto, marginalità che produce marginalità. «Se non fossi andato via – spiega Fofi – sarei diventato come loro», come gli esclusi di Partinico. Margine aperto sul nulla. Fuga dalla Sicilia, dunque, su un treno diretto a Torino. La città della guerra partigiana e delle lotte operaie alla Fiat, di Ada Gobetti e dei “Quaderni rossi” di Raniero Panzieri. Il mito della Resistenza e quello dei metalmeccanici. Ma a Fofi non serve molto tempo per capire quanto le narrazioni mitologiche siano pericolose: al posto della realtà finisce che vedi uno spettro, un fantasma. Quindi altra fuga. A Parigi. Dove Fofi prova a studiare sociologia ma si annoia, segue i seminari di Lacan ma senza trasporto, entra nella redazione di “Positif” assecondando la passione di sempre, sin da ragazzino, per il cinema. Parigi ha il respiro della Storia, è un centro pulsante della vita culturale europea. Ma il gioco delle scuole di pensiero contrapposte si rivela, in termini di conoscenza effettiva del reale, a somma zero. Pratica autoreferenziale.

Il vento del Maggio

Via allora, ancora una volta. Verso Milano, verso una nuova impresa: i “Quaderni piacentini” insieme con Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi. E’ il 1962. Soffia già il vento del Sessantotto. Da brezza leggera si trasforma presto in un vortice impetuoso. Ma la fase di rottura libertaria delle lotte studentesche dura un attimo. Nel giro di un paio d’anni lo spirito del Maggio parigino volge verso logiche settarie, verso chiusure sterili. Gruppi e gruppuscoli finiscono per riattivare pratiche autoritarie. E così il nomade riprende il largo. Dalla Milano che si prepara a vivere gli Anni di piombo alla Napoli sotto proletaria dell’Avvocata, tra il Vomero e i Quartieri spagnoli, dove politica è lavorare nella “Mensa dei bambini proletari”, inventata nel 1972 da un gruppo di militanti di Lotta continua. Anche l’avventura napoletana però si spegne, sepolta dal terremoto, che segna la fine di una scommessa dal respiro corto. Di nuovo su un treno, allora. Destinazione Roma. Città che per Fofi “suole di vento” è in realtà soltanto il porto dal quale muovere costantemente verso altri cento approdi in tutta Italia, nella cura di una rete di iniziative di base che provano a inserire nella deprimente realtà degli ultimi decenni elementi di resistenza.

Inautentici e inutili

Il nomadismo fofiano e le motivazioni che lo rendono necessario sono evidenti peraltro anche in una delle attività in cui Fofi si è speso di più, la creazione e la direzione di riviste di cultura e di impegno politico e sociale: dopo “Quaderni rossi” e “Quaderni piacentini”, “Linea d’ombra”, “Lo Straniero” e l’ultima, “Gli Asini”. Spostamenti continui per sottrarsi a stati di fatto nei quali progressivamente ci si sente costretti alla inautenticità, alla inutilità. E lo stesso crediamo valga per i rapporti che Fofi ha avuto e ha con le persone. Con i compagni delle sue imprese e con i tanti protagonisti della cultura italiana che hanno incrociato il suo percorso.

A comprendere poi sino in fondo la natura di questo percorso, e in particolare i suoi esiti più recenti, un passaggio di “Suole di vento” ci aiuta più degli altri. E’ quello in cui Fofi racconta di quando Elsa Morante gli tolse il saluto: «Avvenne perché le dissi che una qualsiasi affermazione o azione di un qualunque militante rivoluzionario per me valeva di più dell’opera intera di un grande poeta». A Pesoli che lo filma Fofi dice, oggi, che era lui ad avere torto e Morante ad avere ragione. Alla fine vince Rimbaud “suole di vento”, vincono i suoi versi: «Ho teso corde da campanile a campanile, ghirlande da finestra a finestra, catene d’oro da stella a stella. E danzo». Una ragnatela di corde, di ghirlande e di catene d’oro che Fofi tende da una vita intera.

La ragnatela

Tanta gente Fofi ha tirato dentro la sua ragnatela. Privilegio, per chi ne è stato preso. Ma soprattutto sfida. Ci vuole infatti coraggio, molto coraggio, per danzare alla maniera delle “suole di vento”. Non è da poco la posta in gioco, avvertiva Rimbaud: «Il poeta si fa veggente e così giunge all’ignoto». Ogni sapere è movimento avventuroso verso l’ignoto. Ma non è facile puntare la prua verso il mare aperto, liberarsi dagli idoli dell’inautenticità per produrre conoscenza navigando come nomadi «davanti alla tempesta e con un minimo di tela» a bordo della «barca che si chiama Desiderio». Goffredo Fofi ci invita a farlo.



In Primo Piano
Stagione 2024

Turisti più attenti: è boom di prenotazioni anticipate

di Luigi Soriga
Le nostre iniziative