La Nuova Sardegna

«Io sardo in Siria lotto per la libertà del popolo curdo»

di Michela Cuccu
«Io sardo in Siria lotto per la libertà del popolo curdo»

L’uomo ha scelto di diventare un combattente. Il volo e l’addestramento. Poi al fronte con i Kalashnikov 

02 febbraio 2018
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CAGLIARI. Incontrarlo, in una zona dove la periferia della città è già campagna, raggiungibile infilandosi in un dedalo di stradine dove solo chi le ha percorse molte volte riesce ad orientarsi, non è stato facile. Quando parla, lui, vorrebbe che l’interlocutore cogliesse anche i sottintesi. Ha tante cose che non può far sapere, a partire dal suo vero nome e da ciò che fa nella vita e lo dice chiaramente: «se lo facessi metterei in pericolo me, i miei compagni, le nostre famiglie che sono totalmente all’oscuro di tutto questo». Aldo (nome scelto per l’intervista) è uno dei sardi che si sono uniti ai combattenti del Ypg e dello Ypj(le Unità di difesa del popolo) che in Siria cercano di contrastare l’attacco dell’esercito turco.

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Non sarebbero i soli italiani che partecipano alle brigate internazionali che si sono affiancate alle unità di difesa del popolo curdo. In questi sette anni di conflitto in Siria dalla Penisola sono partiti a più riprese per combattere una guerra «che era praticamente conclusa una volta cacciata definitivamente l’Isis dai territori ma ripartita con l’attacco della Turchia che dal confine nord in realtà non è da ieri che lancia razzi e bombe verso quei territori», dice Aldo che, sentenzia: «Di certo i curdi da Afrin e dal Rojava non andranno mai via».

Aldo non ha certo l’aspetto del foreign fighter, almeno non come può immaginare chi questa guerra l’ha vista solo in televisione. Età apparente 35 anni e quando parla, sembra di avere di fronte un docente di geopolitica di quelli che stargli dietro, senza l’ausilio di Google maps è davvero difficile. Spiega che il Rojava, quella striscia di Siria che confina a nord con la Turchia, dove c’è Kobane, città simbolo della resistenza contro l’Isis e dove ha operato un esercito tutto di donne, è nato una sorta di mondo ideale, un modello da esportare in Occidente e che ha convinto anche Aldo ad unirsi alla resistenza curda. Dice: «Questa rivoluzione, democratica, femminista e ambientalista, si è rivelata un’alternativa possibile al sistema capitalistico». Insomma un ideale da perseguire e magari, esportare. È in queste parole che si spiega il motivo che ha portato a tracciare un parallelo fra gli europei che raggiungono il fronte curdo e i volontari che, nel 1936, combatterono la guerra civile in Spagna. Perché di volontari si tratta, non di mercenari.

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Il Rojava, dunque: qui, in pieno conflitto, le popolazione hanno adottato un sistema di autogoverno, dove le etnie vengono rispettate e non rischiano, come altrove, il genocidio e la vita non è scandita dal terrore ma dalla solidarietà. Adesso è Afrin la città simbolo della resistenza. «È qui che la Turchia continua la sua guerra contro il popolo curdo con i bombardamenti che stanno radendo al suolo interi villaggi e uccidendo decine di civili: 87 le vittime, soprattutto donne e bambini, nell’attacco di sabato scorso, 27 gennaio». Aldo descrive una situazione persino più pesante di quella che si apprende dagli organi di informazione.

«I turchi stanno realizzando ai confini con la Siria nuovi campi profughi, destinati ai curdi che vorrebbero far sfollare in un progetto di sostituzione etnica che dovrebbero trasferire nei villaggi ora sotto bombardamento popolazioni arabe dall’interno della Siria. Per i curdi siriani il destino sarebbe quello dell’assimilazione: nelle scuole dei campi profughi i bambini non impareranno più l’arabo e il francese, ma si insegnerà solo turco. La conferma arriva dai bandi per il reclutamento di insegnanti da inviare in quelle zone emanati da Ankara».

A questo punto il destino di circa un milione di curdi siriani sarebbe ancora una volta la diaspora in Europa. È contro tutto questo che Aldo e gli altri sono andati a combattere. Arrivare sul fronte della resistenza è abbastanza complicato almeno per chi è abituato a spostarsi per turismo o lavoro. La via dei volontari passa attraverso la Germania e può arrivare in Iraq. «Dopo si va avanti, a volte in auto, altre a piedi, incontri più persone che ti ospitano. Fai tappe. Spesso aspetti per molti giorni prima di riprendere il cammino». Il racconto a questo punto è in linguaggio militaresco, con la permanenza al fronte che si chiama “ferma” e che spiega il volontario, dura in media sei mesi.

«Prima di andare a combattere, inizia l’addestramento e ti danno un kalashnikov. L’unica cosa certa a questo punto – prosegue Aldo – è che quando arrivi a destinazione la realtà è profondamente diversa da come l’avevi immaginata. Ma non vai via: resti e fai quello che fanno gli altri: combatti». La lingua parlata fra i resistenti è quasi sempre l’inglese, ma sembra che qualche sardo alla fine abbia anche imparato il curdo. Non si ha un numero certo dei volontari che dalla Sardegna sono partiti a combattere. Qualcuno di loro però c’è ritornato più volte, istintivamente chiamato dall’istinto a stare accanto ai compagni. Il legame fra sardi e curdi non è cosa recente. Una ventina di anni fa è nato il Comitato di solidarietà con il popolo curdo, di recente diventato “Rete Kurdistan della Sardegna”. Francesco Lodovici e Antonello Pabis, di Cagliari, fanno parte di questa rete che opera, spiegano, per supportare con progetti, raccolte di fondi da destinare ad esempio alla costruzione di ospedali nelle zone di crisi e portare avanti una campagna di sensibilizzazione, ad esempio con un’assemblea pubblica da tenere la prossima settimana a Cagliari, per chiedere alla Turchia di fermare i bombardamenti.

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