Jacopo Cullin: «Non esiste una comicità sarda ma siamo tutti figli di Benito Urgu»
L’attore racconta alla vigilia delle ultime tappe del suo tour
Ogni volta che annuncia un nuovo tour sui social è un fiume di commenti: dove, quando, vieni nella mia città, io ti ho visto tre volte, io quattro, la mia fidanzata sette. Ora, però, Jacopo Cullin ha deciso di mettere in soffitta il suo show. Quello in corso in queste settimane è l’ultimo giro di giostra di “È inutile a dire”, lo spettacolo che da anni ha portato in scena, in coppia con Gabriele Cossu, in giro per la Sardegna con tappe anche nella penisola. Il 27 agosto sarà a Sant’Antioco, il 29 al teatro Ceroli di Porto Rotondo, il 3 settembre a Lo Quarter di Alghero, il 19 al teatro Garau di Oristano e poi il gran finale il 2 novembre al Teatro Dehon di Bologna.
Cullin, ultime tappe di un tour che le ha dato soddisfazioni enormi. Perché ha deciso di fare calare il sipario?
«Perché sono 6 anni che lo portiamo in giro, sentiamo il bisogno di fare qualcosa di nuovo. Anche se ormai è diventato un qualcosa di classico: c’è gente che è venuta a vederlo sei, sette volte. Ma è diventato un classico anche per me. Più avanti potrei anche riprenderlo, ma ora ho voglia di scrivere altro».
Lei è un comico cagliaritano. È difficile fare ridere oltre i propri confini?
«Ero convinto di sì e per questo sono stato molto prudente. Per quanto sicuro di quello che faccio non avrei mai pensato che sarei andato molto lontano. La svolta è stata a Sassari, dove ho avuto una accoglienza strepitosa, un’ovazione. È stato bellissimo, da cagliaritano non me lo aspettavo. E dopo che ho fatto Sassari mi sono detto: perché non provare oltre Tirreno? D’altro canto, il mio spettacolo è in italiano, c’è solo un personaggio che parla in dialetto...».
E com’è stato accolto oltre Tirreno?
«All’inizio ero convinto di partire per portare lo spettacolo pensando al pubblico degli emigrati sardi. Poi alla fine i sardi erano la metà, o anche meno. Torino e Milano sono le piazze in cui lo spettacolo ha avuto l’accoglienza migliore insieme a Cagliari, Nuoro, Sassari. Una cosa fantastica».
La piazza più difficile?
«Bari, ma più che altro per una mia percezione. Lo spettacolo era in un cinema e l’audio era molto ovattato. Le risate non arrivavano, ma Damiano, il mio operatore, mi ha detto: sembravano due spettacoli diversi. In platea sentivi le risate, sul palco zero».
Ritornando alla rivalità Sassari- Cagliari: ma è davvero così?
«Ma è solo una cosa calcistica. Io a Sassari sono pieno di amici e il sassarese mi fa morire dalle risate».
Cullin, Lapola, Pino e gli Anticorpi, Baz, Geppi Cucciari: possiamo parlare di una comicità sarda?
«Onestamente non credo esista, siamo tutti così diversi. L’unica cosa che un po’ ci unisce è che siamo stati tutti un pelo influenzati, anche se inconsciamente, da Benito Urgu. Dobbiamo rendergliene atto e rendercene conto: se abbiamo iniziato a fare ridere è perché ascoltavamo Benito Urgu».
Il suo primo incontro con Urgu?
«Vent’anni fa lo invitai a Oristano al mio primo spettacolo. Venne e mi disse: bravo, sei l’unico che non mi imita. E io: no, la sua impronta c’è. E poi qualche tempo dopo me lo sono ritrovato sul set di “L’arbitro” di Paolo Zucca. Ci trovavamo a colazione e lui partiva con le sue barzellette, le telecronache di Falcao...».
Le è mai capitata nella sua carriera una serata con un pubblico ostile?
«Agli inizi ovunque. Una volta in un paese mi volevano picchiare. Il pubblico si aspettava dell’altro: un comico con intermezzi di musica sarda. Invece, c’ero io con una cover band degli U2. Mi tirarono un pomodoro grande come un’anguria».
Grillo, Cuccarini, Pausini, Giorgia e tantissimi altri sono stati lanciati da Baudo. Lei ha incontrato un Pippo sulla sua strada?
«Sicuramente Massimiliano Medda. Mi ha visto sul palco e mi ha chiesto di partecipare alla sua trasmissione come ospite. Andò bene e mi invitò a restare per tre puntate. Alla fine sono rimasto con lui. È stato un trampolino incredibile».
Ma Baudo lo ha mai conosciuto?
«No, ho solo visto dalla spiaggia la casa che aveva a Torre delle Stelle».
In “Lolita Lobosco” con Luisa Ranieri è diventato un poliziotto barese.
«Al provino eravamo una cinquantina: tutti pugliesi tranne me. L’ho fatto ed è andata bene. A Bari molti erano convinti fossi barese. Quando dopo Bari-Cagliari ho dovuto dire che ero cagliaritano è stata un po’ dura...».
Sempre il calcio...
«Il calcio non aiuta ma io lo adoro».
Lei ha conosciuto Gigi Riva, ci ha lavorato insieme: cosa le ha lasciato?
«Mi ha lasciato un senso di giustizia e giustezza. È stato un uomo che ha fatto cose speciali, era un giusto. Non diciamo che erano altri tempi. Anche duemila anni fa lo erano e i giusti erano giusti anche allora. Si dice che adesso il calcio è cambiato, non esistono più le bandiere, ma se uno vuole essere una bandiera basta che prenda l’esempio di Gigi».
Si sente la sua assenza a Cagliari?
«Quando giri per Cagliari ti aspetti di incontrarlo da un momento all’altro. Il mio ricordo di Gigi Riva è in via Dante dove lo incrociavo spesso e lui ricambiava sempre con un saluto. Era un uomo gentile. Faceva parte della città, era uno dei nostri monumenti».
Come vede il Cagliari?
«È tutto nuovo, ma io sono un sostenitore di Pisacane per quello che ha fatto con i giovani. Certo, la serie A è un’altra cosa, ma ha fatto acquisti azzeccatissimi e ci credo molto».
Ma se Jacopo Cullin non avesse fatto l’attore cosa avrebbe fatto?
«Non ho mai preso altro in considerazione da quando avevo 16 anni. Il non avere pensato ad alternative mi ha fatto insistere su questo mestiere».