Simona Campus: «Non sono una madre coraggio. Voglio giustizia per Marco»
La mamma del 22enne ucciso a Carnevale a Bari Sardo
Ilbono «L’ultima sera ce l’ho davanti agli occhi. Marco sulle scale, che mette gli scarponi, io e mia figlia gli abbiamo detto: ma vai così? Così, con una felpa, i pantaloni e gli scarponi? Perché lui era uno precisino, si vestiva sempre carino. Mi ha detto: mà, tanto è una festa. È uscito, non è più tornato». Simona Campus è la madre di Marco Mameli, che aveva 22 anni quando il primo marzo, ultimo giorno di Carnevale, è stato ucciso a Bari Sardo. Era andato per partecipare alla festa in piazza. Accoltellato, Marco: a oggi, chi lo ha ucciso non ha un nome.
Signora, anche ieri ha scritto sui social: “dal momento in cui avete scelto il silenzio siete tutti parte di quel crimine. Li ha chiamati vigliacchi”. Spera di scuotere chi ha visto e non parla?
«Io non so chi sia stato, ma mio figlio era a una festa e c’erano tantissime persone, anche persone che lui conosceva e che in tutto questo tempo hanno scelto il silenzio, la vigliaccheria. Stanno zitti per paura, paura di cosa? Mio figlio non era un criminale. Quello che chiediamo è giustizia, e verità».
Sono passati sei mesi dalla morte di Marco. Vi siete sentiti soli?
«Non soli, abbiamo percepito la solidarietà, l’affetto della comunità. Ma poi su questa storia pazzesca cala il silenzio, nessuno tira fuori nulla. Non si può accettare: mio figlio è uscito per andare a una festa e poi è stato ucciso. Questa è la verità».
Ma Marco non era andato con i suoi amici a Bari Sardo?
«Guardi, i suoi amici non erano con lui. Non gli amici veri, non lo avrebbero abbandonato. C’erano sicuramente delle persone che l’hanno poi lasciato solo. Non si può tacere, e rendersi complici. Abbiamo massima fiducia nelle forze dell’ordine, ma finora le manifestazioni, le fiaccolate, non sono servite a smuovere le coscienze. E non serviranno, se non si riuscirà a scalfire questo muro pazzesco. Un muro di silenzio, che non tirerà fuori da un fatto così grave. Come possono far finta di dimenticare?».
Pensa che dietro questo silenzio ci siano anche le famiglie di chi ha visto e non parla?
«Certamente. Cosa insegniamo ai nostri ragazzi? A coprire una cosa che non si può coprire? A non assumersi le proprie responsabilità? Non si capisce che se non si esce da questo modo di pensare, quel che è successo, così terribile, succederà ancora?».
Come passa ora le sue giornate?
«Esco per lavorare, poi basta. È insostenibile pensare all’indifferenza di chi sa e ha deciso di non parlare, di non dire la verità».
Ma non ha fiducia in una svolta?
«Noi siamo pazienti, abbiamo fiducia ma vorremmo che qualcosa si muovesse. E guardi che io non chiedo un colpevole purché sia: voglio che sia fatta giustizia, che la verità emerga. Penso che sia un debito nei confronti di tutti noi. Di Marco prima di tutto».
In questo mare di dolore, c’è qualcosa che la fa sorridere, pensando a suo figlio?
«Marco era un figlio presente, sempre. Disponibile, con me, con tutta la nostra famiglia. Siamo tanti, ma lui aveva uno spazio per tutti. Aveva 22 anni e sembrava avesse vissuto tante vite. Mi dicevano: che bravo e che educato è tuo figlio. A me sembrava fosse normale. Poi ho capito. È un’assenza tremenda. Anche Ebano, il suo cavallo, ha gli occhi tristi».
Nell’89 nella penisola venne rapito un ragazzo, Cesare Casella. La madre, Angela, andò fino alla Locride per chiederne la liberazione, arrivò a incatenarsi. La chiamarono “madre coraggio”. Si sente anche lei una madre coraggio?
«Io mi sento una madre distrutta. E avrei voluto essere solo una madre normale, con mio figlio accanto a me. E ora chiedo giustizia per Marco».