Paolo Fresu si racconta: «Da New York a Pechino mi dicono: nelle tue note si sente la Sardegna»
Il musicista: «Gli artisti devono esporsi, non si può rimanere in silenzio di fronte alla massacro a Gaza»
La musica di Paolo Fresu nasce nella sua Berchidda, tra coriandoli, stelle filanti e il suono di un’armonica. Figlio di pastori e contadini, nato nel 1961 e cresciuto in una Sardegna fatta di terra, silenzi e comunità, Fresu ha scoperto la musica prima ancora di scegliere di farne un mestiere. Da piccolo seguiva la banda di paese come se fosse un corteo sacro e sognava di toccare quella tromba chiusa nella custodia nera con la fodera rossa, nascosta dai genitori nel piano più alto della libreria. Non ha mai deciso di “diventare” musicista: lo è diventato e basta. Anche quando, finiti gli studi alle superiori, la Sip gli propose un’occasione per fare carriera come tecnico e lui rispose “non mi interessa”. Oggi Fresu è uno dei più importanti trombettisti e musicisti jazz su scala internazionale, ma non ha mai smesso di essere, semplicemente, un ragazzo di Berchidda che suona e vive con passione, coerenza e stupore.
Qual è il suo primissimo ricordo di una nota musicale?
«Il primo ricordo risale a quando avevo quattro o cinque anni. I miei genitori erano pastori e contadini, vivevamo in una famiglia umile. Mi regalarono un’armonica e ricordo un carnevale in cui ho suonato a casa: gli amici dei miei ballavano sulle mie note, tra coriandoli e stelle filanti. Poi arrivarono le prime folgorazioni: la banda di Berchidda, in cui ancora oggi quando posso suono, e i primi complessi musicali. Infine la tromba: era stata comprata di terza mano per mio fratello, riposta in una custodia nera con una fodera rossa. I miei l’avevano messa nel ripiano più alto della libreria per non farmela toccare, la sognavo e poi diventò mia. Per me la musica comincia lì, con l’odore acre dell’olio dei pistoni che annusavo con devozione».
Quando il jazz è entrato nella sua vita, che cosa ha provato?
«Alla fine degli anni Settanta ho iniziato a suonare jazz, ma non c’è stato un momento preciso in cui ho detto “voglio fare questo”. Mi improvvisavo, sperimentavo, e ogni volta che uscivo di casa per andare in sala prove provavo un senso di felicità pura. A Siena ho formato un gruppo con altri musicisti sardi, e poi è arrivata l’esperienza nell’orchestra di Domenica In con Pippo Baudo, nell’84. Al ritorno, i berchiddesi mi chiedevano subito” quando riparti?”. Loro avevano capito prima di me che ero diventato un musicista, io invece ho dovuto prenderne coscienza più tardi».
C’è stato un bivio decisivo nella sua vita?
«Tanti, uno è quello, dopo il diploma al tecnico industriale di Sassari. La Sip mi offrì un lavoro sicuro. Il dirigente, mi parlò per venti minuti e concluse con un “ti assumo, farai carriera con noi”. Io mi alzai e risposi: “non mi interessa”. Tornai a casa e mio padre fu comprensivo, i miei volevano che portassi avanti ciò che amavo».
Che ruolo hanno avuto le sue radici nella sua musica?
«Berchidda è stata la mia scuola di vita. Lì ho creato il Time in jazz e lì ho imparato che la comunità può diventare musica. Da giovane vivevo l’insularità come una possibile inferiorità, ma presto ho capito che era un tesoro: un patrimonio di lingua, tradizioni, diversità. Quando suono porto sempre con me quel vissuto. È la mia carta d’identità. Ovunque, da New York a Pechino, mi hanno detto che nelle mie note si sente la Sardegna. Non mi sorprende: suono come sono, e quel granitico senso di appartenenza è parte di me».
Se si guarda indietro, ha dei rimpianti?
«Non ne ho. Ho sempre seguito la passione, con coerenza e responsabilità. Dico ai giovani che bisogna provarci con tutte le forze, e se non si riesce bisogna avere l’intelligenza di tornare indietro e ripartire. È una forma di rispetto verso se stessi. Forse qualche rimpianto c’è nei rapporti personali, ma dal punto di vista professionale mi sento un privilegiato».
La collaborazione nella musica per lei cosa significa?
«Per me la musica nasce dal filo umano. Senza un rapporto vero non mi interessa. È per questo che i miei progetti durano così a lungo: il quintetto nato a Siena esiste da più di quarant’anni, con Bebo Ferra collaboro da venti. Se non c’è sintonia, suonare diventa una pena: sul palco ci si mette a nudo e tutto quello che sei emerge. Anche con Ornella Vanoni con cui ho collaborato ci sentiamo quasi tutti i giorni e c’è un rapporto umano».
Lei ha composto anche colonne sonore, come si trova nella dimensione cinematografica?
«Mi affascina tantissimo. Scrivere per un film o per il teatro significa piegare la libertà a una finalità precisa. Ho scritto, per esempio, un requiem per Ilaria Alpi: era pensato per il momento del rimpatrio delle bare di lei e del suo operatore, ma poi è stato usato altrove, assumendo un nuovo significato. Ogni volta che scrivo per immagini scopro qualcosa di me che non conoscevo. È una sorpresa continua».
Che ruolo deve avere un artista oggi?
«Penso che sia fondamentale prendere posizione e che l’artista in quanto tale debba necessariamente farlo. L’ignavia è la cosa peggiore, è troppo facile rimanere in silenzio, e chi rimane in silenzio è complice. Ognuno può pensarla come vuole però in alcuni casi ci sono delle verità oggettive, come il massacro di Gaza. È vero che un post sui social non cambia nulla ma un artista non può non avere una conoscenza critica. Se ognuno di noi facesse una cosa piccola tutti insieme faremmo una cosa grande».