Marcello Fois: «Siamo tornati a una visione della Sardegna colonizzata»
Lo scrittore e intellettuale nuorese Marcello Fois parla a ruota libera: il suo ultimo romanzo, i libri che raccontano l’isola, il legame con Murgia
Chiamatelo scrittore e sarà il modo più veloce per fargli alzare la voce: «No, spero non succeda mai». Marcello Fois dice che quando scrive un libro si sente più insicuro di prima, «rileggo le cose scritte da giovane e sono piene di desiderio, speranze, sono anche presuntuose e aggressive», non rinnega ma passa oltre. «Oggi sono molto meno temerario, so che certe cose, da uomo maturo, non puoi permettertele e diventano patetiche». Dopo ogni libro «mi sento di aver esaurito il respiro e di non poter più scrivere nulla». Per questo ora, mentre è in tour per presentare il nuovo romanzo, “L’immensa distrazione” (Einaudi), si dice sicuro che «non scriverò mai più».
Il suo romanzo unisce una vicenda familiare alla grande storia sullo sfondo.
«Questo rapporto è un po’ un topos letterario, per fortuna non si inventa niente quando si scrive, ed è una consolazione. Il romanzo è perennemente una faccenda di rapporti tra la grande e la piccola storia, l’unica cosa che si può inventare è il contenitore nel quale rendere questo sistema più bello. Alla base, ho sempre l’ossessione compulsiva di produrre un classico».
Perché?
«Be’ per esempio la famiglia è un argomento di tutti i classici. Nucleo sperimentale del racconto dell’umanità. Anche l’Iliade e l’Odissea non raccontano altro che problemi familiari che vengono espansi, una moglie fuggita con l’amante e il marito che la va a riprendere, e una moglie che aspetta il marito che non torna. Questi dispositivi sono immortali, quando ci si illude di inventare qualcosa forse non si è letto abbastanza...».
Mi dia uno sguardo dall’alto: quest’anno la Sardegna è molto presente nelle classifiche di vendite nazionali. Prima “Istella mea” di Offeddu, poi “La levatrice” di Cau, che ne pensa?
«Mi sembra un passo indietro rispetto a molti passi avanti che una generazione, quella di Atzeni, di Mannuzzu, aveva fatto».
E invece come sono questi due sguardi sull’isola?
«Ti sembrano diversi tra loro? Siamo tornati all’agropastorale, mi sembra una visione da Sardegna colonizzata, non una Sardegna attuale. Come può funzionare? Risponde al luogo comune, è consolatoria, non genera crisi. Questa stagione premia chi produce quello che ti aspetti. E niente è più fascista della letteratura confermativa. Anzi, il libro che deve confermare quello che già sai è la cosa più lontana dalla letteratura, che invece deve farti saltare dalla sedia».
Ma è una Sardegna che oltremare attira e vende.
«Stiamo parlando di mercato, quella roba ha sempre venduto. Mi sembra una generazione carente dal punto di vista della letteratura, non del mercato, confondere le due cose è un bel problema. Non è detto che il valore e le vendite siano corrispondenti, sennò le più grandi scrittrici italiane sono Benedetta Rossi e Benedetta Parodi».
Non posso non chiederle di Michela Murgia. A due anni dalla morte è una figura ben presente tra le nuove generazioni, è contento di questo?
«Michela sarebbe stata assai necessaria in questo preciso momento, e penso il suo progetto sia stato più capillare di quanto si pensi. Nonostante l’illusione che lei si possa normalizzare, non è affatto normalizzabile. A una donna il medico dice che ha un anno di vita e lei decide di impiegarlo per le questioni per cui ha lottato estremamente: parità di genere, la famiglia per scelta, l’autodeterminazione. Sono sconcertato come un argomento così cocente sia stato messo in salsa gossip: tutto questo può essere buttato in vacca o essere oggetto di definizione? Direi di no. Perciò servirebbe rispetto, dire “ok non ho ben capito di cosa si trattasse quando mia figlia parlava di famiglia queer ma lo rispetto”».
Si riferisce agli ultimi titoli usciti sulla madre di Murgia, Costanza Marongiu, sul fatto che non avesse capito il concetto queer?
«Dal mio punto di vista in questo momento è urgente potenziare il suo pensiero, non indebolirlo. Ma poi si può pretendere che una signora ottantenne avrebbe capito? No, e quindi che senso ha anche parlarne... questo mi ha disturbato. Io Michela la conoscevo piuttosto bene, siamo stati fratelli e non ci siamo mai genuflessi l’uno sull’altro, abbiamo avuto anche momenti di polemica molto aspra».
Le ha dedicato il suo ultimo libro, vero?
«Sì, a lei e a Daniela Zedda. Si può essere intellettuali anche con la foto, non con l’uso della parola, e Zedda è stata una delle più grandi fotografe che questo continente abbia avuto, non ho paura dell’enfasi della frase. Loro sono due voragini nella Sardegna, attorno spaziano il folk, il luogo comune, il colonialismo».
Le morti ravvicinate di Pippo Baudo, Giorgio Armani e Stefano Benni ci ricordano tre volti diversissimi dell’Italia.
«Con buona pace dell’Italia monocratica che si sta tentando di costruire. Dei tre ero più vicino a Benni, però si può negare che Baudo o Armani fossero delle eccellenze assolute? No, e io oggi vedo pochissime persone con questa intangibilità. Più muoiono e meglio è per chi ci governa».
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