La Nuova Sardegna

“Procedura”, la rivelazione del grande scrittore reticente

di Alessandro Cadoni
“Procedura”, la rivelazione del grande scrittore reticente

Il romanzo più famoso di Salvatore Mannuzzu torna in libreria per Il Maestrale Segnò la nascita del “giallo sardo”. La prefazione di Cadoni alla nuova edizione

05 novembre 2021
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«Ma sarebbe inutile cercare tra i tanti volti, sotto il cono di luce dell’abat-jour, anche quello della goffa, pigra, svogliata e timida Natalia. Quel volto è tutto in penombra, si nasconde, si ritira. Si restringe a due occhi neri e pungenti, mobilissimi, innamorati e impietosi». Con queste parole Cesare Garboli, in una prefazione a Lessico famigliare del 1971, riconosceva nella scrittura di Natalia Ginzburg la marca, tra le altre, della reticenza. Curioso che si tratti della stessa categoria figurale che la critica ha costantemente rinvenuto nell’opera di Salvatore Mannuzzu. Curioso, ma non casuale, se è vero che fu proprio Ginzburg artefice, perlomeno in parte, del peculiare successo letterario di Mannuzzu. Già autore di racconti, saggi, traduzioni e soprattutto liriche per la rivista Ichnusa (...) Mannuzzu aveva scritto, nelle more d’un concorso che nel 1955 lo avrebbe fatto diventare giudice, un romanzo, Un Dodge a fari spenti, che avrebbe però pubblicato soltanto nel 1962, da Rizzoli: sotto pseudonimo (Giuseppe Zuri), per di più, giacché sua preoccupazione – allora e oltre – era che le sue sentenze non venissero confuse coi suoi racconti, magari considerati brutti. Per lo stesso motivo aveva smesso di scriverne, solo riservandosi di pubblicare certe poesie (...).

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Ma ogni rinunzia, si sa, dura sinché dura: in questo caso sino al 1966, quando – lo racconta l’autore stesso, reticentemente celato dietro la terza persona – decide di tentare «una sortita», ubbidendo «anche a un’ulteriore sollecitazione: mesi prima gli era morto tragicamente un fratello»: fatto di cui «bisognava trovare una metafora». A questa contingenza risale il più enigmatico tra i romanzi di Mannuzzu, Le ceneri del Montiferro: per il quale si trattò, a dire il vero, d’un voto sciolto a metà, giacché quelle pagine di arduo sperimentalismo, calibrate e frammentarie, rimasero in un cassetto per quasi trent’anni. Iniziava poi per Mannuzzu una nuova stagione, quella della politica attiva, dove il ruolo da deputato (1976-1987) era inteso allo stesso modo: inconciliabile con il romanzo. Fu però caso che dal 1983, negli stessi banchi della Camera, dalla parte del Pci, sedesse anche Natalia Ginzburg. Spesso impegnati su stessi temi (su tutti, la riforma del sistema carcerario), ai due scrittori restava il tempo per parlare di letteratura; ciononostante, Mannuzzu non s’azzardava a menzionare i suoi trascorsi da narratore, né a parlare delle sue poesie con l’affermata collega, per via di quella sua natura – si sarà già intuita dalle sparute notizie appena riportate – così poco incline all’autopromozione. Nel frattempo aveva «però scoperto il computer; e gli era venuta voglia di ritornare sulle Ceneri del Montiferro»; inoltre «avvertiva che l’esperienza parlamentare volgeva al termine e bisognava trovare altro cibo per il vorace verme solitario che mordeva dentro».

Vinta dunque la vergogna – quale miglior cifra esistenziale per l’autore reticente? – fece leggere Le ceneri a Natalia Ginzburg, a patto che il giudizio fosse determinato da assoluta, finanche brutale, sincerità. Giudizio che, con un certo sollievo, arrivò, assai positivo. Il romanzo fu dunque proposto a Einaudi, presso il quale la Ginzburg era autrice e consulente preziosa, ma restò inedito ancora per sette anni; la vena narrativa di Mannuzzu era però riaffiorata, né più esisteva alcun conflitto, di interesse o etico. Risale dunque a quei mesi del 1987 la scrittura di Procedura, che l’editore accolse invece quasi immediatamente, già pronto per la fortunata uscita dell’anno successivo, che valse al romanziere rinnovato una serie di premi (Viareggio e Dessì, tra gli altri) e il plauso quasi unanime della critica. Un altro riconoscimento fu il Premio Gran Giallo Città di Cattolica, evenienza che ci porta a un fatto discusso sin dalle origini: Procedura è effettivamente un giallo? Su questo punto battono i testimoni della più immediata e interessante ricezione critica. Oreste Del Buono, in un articolo capace di innescare un dibattito, leggendo questo romanzo a fianco a un altro uscito negli stessi giorni per Editori Riuniti, L’oro di Fraus di Giulio Angioni, si chiede, sin dal titolo, se sia nato un giallo sardo; un paio di settimane dopo, dalle colonne del Giornale, gli fa eco Geno Pampaloni.

A questo punto, anche Mannuzzu decide di intervenire, reclamando la sua parte sulle pagine della Nuova Sardegna, accanto a un’intervista allo stesso Del Buono: e lo fa, come di consueto, rimescolando le carte, pacatamente dissimulando. Cosa certa è che al centro di Procedura c’è una detection: condicio sine qua non, ma non esclusiva, del genere. Tutto parte da un omicidio nella piccola città di provincia, il cui nome è nella sola iniziale, T. : solo la prima, forse la più vistosa, d’una serie di ellissi; la vittima è Valerio Garau, consigliere stimato nel locale tribunale, conosciutissimo in città, generalmente benvoluto, morto «per maleficio: un grano bastante di cianuro».

Il fatto avviene il 17 marzo del 1978, ventiquattr’ore dopo il rapimento Moro. Coincidenze cronologiche – ora diremmo storiografiche – a parte, ogni successivo dettaglio è affidato alla memoria del protagonista e narratore in prima persona, che compone una sorta di diario in cui i fatti sono rigorosamente datati, ma con un diffuso senso di vaghezza, forse per via d’una certa inaffidabilità, mnemonica o professionale, mai celata: «Non sono stato un buon giudice: o, almeno, non un giudice diligente, operoso, affidabile; ho ceduto continuamente a distrazioni». Eppure è a lui che spetta l’ufficio ingrato di indagare sull’omicidio: proprio a lui, giudice forestiero, destinato per una qualche non specificata penitenza al tribunale di questa innominata Sassari, evanescente e però inequivocabile, città che sente «non proprio inospitale, forse, ma chiusa». Attraverso le sfumature del suo tono passano le inclinazioni dell’autore: l’affidare a una iniziale i nomi di luogo, accanto alla T. di Sassari una C. che sta per Bosa, quasi che l’ellissi del toponimo sia il correlativo figurale dell’atopia, intesa come quella perdita di identità dei luoghi che per Mannuzzu è al centro dell’esperienza di crisi del senso; il dire di sé per allusioni, celando peraltro quasi tutto, a iniziare dal nome; l’avanzare ipotesi sempre per formule dubitative.

«Ma non voglio parlare di me – incalza da principio –. La storia che intendo consegnare a questo quaderno è un’altra: e non mi appartiene affatto». Affermazione, quest’ultima, sulla quale a nostra volta ci sarà dato di dubitare. Di sicuro appartiene, a tale storia, la sequela di personaggi secondari, alcuni indimenticabili, come lo zio della vittima, il Monsignor Pietro Garau, fama di impareggiabile esorcista in città, noto per le sue stravaganze; per non dire della di lui sorella, Teresita, la «zia cieca», che in una pagina «da antologia» (Pampaloni) scorre l’album di famiglia di Valerio, popolato di morti, spesso in maniera tragica (...) . Ma quella offerta al lettore di Procedura è una struttura senza appigli, se non addirittura un’opera destrutturata, privata delle evidenze del codice. Ancora nel suo già menzionato, brevissimo scritto, Mannuzzu ha scritto che «il “giallo” è un percorso logico e necessitato dentro realtà capaci di significati precisi (le prove e gli indizi) e verso una realtà finale (la soluzione) che raccoglie tutte le precedenti». Qui invece «prove e indizi sono per definizione equivoci e la strada che segnano è tanto incerta che può apparire vana; porta solo a sé stessa e poi davvero non si sa dove».
 

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